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Libia, arrestato al-Masri. Ecco le accuse della procura di Tripoli

La decisione della procura generale libica rappresenta un raro segnale di responsabilità interna, sebbene l’esito del processo e l’eventuale cooperazione con la Corte penale internazionale rimangano incerti

La Procura generale libica ha confermato l’esistenza di pratiche di tortura e trattamenti crudeli nei confronti di dieci detenuti all’interno di un istituto di correzione di Tripoli, uno dei quali è deceduto a causa delle percosse subite. In un comunicato ufficiale, l’ufficio del Procuratore ha annunciato l’ordine di custodia cautelare nei confronti dell’ex responsabile delle operazioni e della sicurezza giudiziaria, Osama al-Masri Najim, figura già nota alle autorità giudiziarie internazionali per analoghi crimini.

Secondo quanto reso noto dalla procura di Tripoli, le indagini — avviate il 9 luglio 2025 dopo la revoca di precedenti misure cautelari — hanno raccolto elementi sufficienti per confermare la responsabilità diretta di Najim in episodi di violenza sistematica sui detenuti. Il viceprocuratore ha disposto la detenzione preventiva in vista del rinvio a giudizio, precisando che le indagini continueranno fino all’individuazione e alla punizione di tutti i responsabili.

La Procura ha spiegato di aver interrogato Najim sulle circostanze delle violenze, ottenendo prove ritenute sufficienti per deferire il caso al tribunale competente. Il provvedimento, sottolineano gli inquirenti libici, è stato adottato nell’ambito della giurisdizione nazionale, ma tiene conto anche dei reati già oggetto di mandato internazionale.

Il mandato della Corte penale internazionale

Il 18 gennaio 2025, la Camera Preliminare I della Corte Penale Internazionale (Cpi) aveva emesso un mandato di arresto nei confronti di Osama Najim, accusandolo di torture, sparizioni forzate, omicidi e sfruttamento di migranti detenuti in condizioni assimilabili alla schiavitù. Secondo il documento della Cpi, Najim avrebbe gestito o supervisionato diversi centri di detenzione illegali in Libia, dove i prigionieri venivano sottoposti a pestaggi, violenze sessuali e privazioni sistematiche di cibo e cure.

Si tratta di accuse che rientrano nel quadro dei crimini di guerra e dei crimini contro l’umanità, per i quali la Corte internazionale ha chiesto più volte la cooperazione delle autorità di Tripoli e degli Stati membri, inclusa l’Italia.

L’arresto e il rilascio in Italia

Il giorno successivo all’emissione del mandato, il 19 gennaio 2025, Najim venne arrestato a Torino da un’unità di sicurezza italiana mentre soggiornava in un hotel della città. L’uomo si trovava in Italia in compagnia di altri cittadini libici e, al momento dell’arresto, non avrebbe opposto resistenza.

L’operazione, condotta in coordinamento con l’Interpol, sembrava preludere all’estradizione verso la Corte Penale Internazionale. Tuttavia, dopo appena due giorni di custodia, Najim fu rilasciato per decisione del governo italiano.

Il ritorno in Libia e la nuova detenzione

Dopo il rimpatrio, Najim fu inizialmente accolto negli apparati della sicurezza libica, ma la crescente pressione internazionale e le nuove prove emerse spinsero la Procura generale di Tripoli ad agire.

Il 28 aprile 2025, Najim comparve per la prima volta davanti ai giudici libici in relazione ai fatti contestati. Nei mesi successivi, la Procura raccolse ulteriori testimonianze e referti medico-legali che confermarono episodi di tortura avvenuti negli istituti di detenzione posti sotto la sua supervisione.

L’ultimo passo è arrivato con la decisione odierna: la conferma ufficiale delle violenze e della morte di un detenuto, e la nuova ordinanza di custodia cautelare nei confronti di Osama al-Masri Najim, che sarà processato davanti a un tribunale nazionale per i crimini di tortura, omicidio e trattamento disumano dei prigionieri.

Un caso simbolo dell’impunità carceraria in Libia

La vicenda di Najim rilancia l’attenzione internazionale sulle condizioni delle carceri libiche e sulla cultura dell’impunità che, secondo numerosi rapporti delle Nazioni Unite, continua a dominare il sistema penitenziario del Paese. Migliaia di detenuti restano imprigionati senza processo, spesso in strutture gestite da milizie o corpi paralleli al Ministero dell’Interno, dove torture e violenze sono documentate da anni.

La decisione della procura generale libica rappresenta un raro segnale di responsabilità interna, sebbene l’esito del processo e l’eventuale cooperazione con la Corte penale internazionale rimangano incerti.


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