L’Europa ogg non dispone di riserve fossili significative e paga un costo elevatissimo per la sua dipendenza dalle importazioni di petrolio, gas e carbone. Una bolletta da quasi 400 miliardi di euro all’anno. Che sono proprio quelli che servirebbero, secondo le stime di Mario Draghi, per portare a compimento la transizione energetica e fare del vecchio continente la prima regione al mondo con una economia florida e a zero emissioni nel 2050. Semplice coincidenza o ironia della sorte? Il commento di Andrea Barbabella, Coordinatore e Responsabile scientifico di Italy for Climate
La trentesima Conferenza delle Parti della Convenzione Onu sul clima è in pieno svolgimento nel cuore della foresta amazzonica brasiliana, e il lavoro dei delegati deve fare i conti con un contesto per lo meno complesso, stretto tra una crescente sfiducia nella diplomazia climatica e un quadro geopolitico quanto mai incerto. La crisi del 2022 ha (ri)portato con forza al centro dell’agenda politica delle grandi economie industrializzate, e non solo, il tema della sicurezza energetica. E, non a caso, ha acceso un dibattito pubblico senza precedenti sulle politiche climatiche, dibattito caratterizzato da una polarizzazione estrema delle posizioni in gioco, fino al risveglio di echi negazionisti che molti di noi pensavano spenti del tutto.
Oggi più che mai le scelte energetiche, e di conseguenza climatiche, di una grande potenza industriale sono anche la base delle sue stesse politiche industriali. E Stati Uniti, Cina e Unione europea, che rappresentano da sole circa un quarto della popolazione mondiale ma il oltre il 40% delle emissioni globali di gas serra e ben oltre il 60% del Pil mondiale, almeno in apparenza, hanno deciso di puntare in direzioni divergenti (o di non puntare alcuna direzione).
Gli Stati Uniti, dopo la crisi del gas russo e con l’irrompere dell’amministrazione Trump, hanno rafforzato la loro leadership sulle energie fossili. Nel 2024, con oltre mille miliardi di m3 di gas e quasi 800 miliardi di tonnellate di petrolio, si sono confermati di gran lunga i principali produttori mondiali di combustibili fossili. Sembrerebbe che il più grande emettitore di gas serra della storia abbia deciso di rilanciare sui fossili e, quindi, contemporaneamente sfilarsi dagli impegni climatici e potenzialmente affossare ogni speranza di successo della COP30 dei Belem, per riaffermare la propria egemonia sul resto del mondo. Eppure, alcuni dei trend analizzati presentano alcune apparenti contraddizioni che sembrerebbero suggerire che, anche con le politiche aggressive di Trump, alcune dinamiche green in atto nel Paese potrebbero essere al più rallentate, ma difficilmente potrebbe vedere invertita la loro traiettoria. Vanno, ad esempio, in questa direzione le ultime previsioni per il 2025 dell’Agenzia Internazionale dell’Energia (IEA) che indicano in 390 miliardi di dollari gli investimenti statunitensi in rinnovabili, efficienza energetica e reti energetiche (in crescita rispetto all’anno precedente) contro i 188 miliardi di dollari nei combustibili fossili (in diminuzione).
In direzione opposta si starebbe muovendo la Cina, definita oramai con ampio consenso il primo elettro-stato del mondo. Quest’anno potrebbe raggiungere il traguardo di un terzo dei consumi di energia elettrificati (contro poco più del 20% di Usa ed Europa), consumi su cui inizia a incidere, ad esempio, la rapida diffusione della mobilità elettrica di cui l’economia asiatica è leader indiscusso: nel 2025 circa un’auto su due vendute nel Paese è elettrica e quasi il 70% delle auto a batteria e ibride plug-in vendute nel mondo è made in China. Ma la leadership nelle green-tech non si ferma alle auto elettriche e riguarda, ad esempio, pannelli fotovoltaici, turbine eoliche e batterie di cui il Paese asiatico è di gran lunga il principale produttore mondiale. Forte di queste credenziali si presenta alla conferenza brasiliana come il nuovo, e per molti inaspettato, paladino della lotta al cambiamento climatico.
Eppure, è ancora presto per decretare compiuta una vera e propria transizione green. La Cina, infatti, rimane il primo emettitore mondiale di gas serra, con quasi 15 miliardi di tonnellate di CO2eq nel 2024. E, se è vero che anno dopo anno scrive un nuovo record nella realizzazione di impianti di generazione elettrica da rinnovabili, rimane comunque il primo consumatore al mondo del più inquinante tra i combustibili fossili, responsabile da sola di quasi il 60% del consumo mondiale di carbone. Questo paradosso è figlio della coesistenza nel Paese di due modelli energetici contrapposti: quello fossile e ad altissimo impatto ambientale che ha alimentato quasi esclusivamente la crescita degli anni 90 e primi anni del nuovo millennio, e quello dell’elettrificazione e delle rinnovabili su cui ha puntato negli ultimi quindici-venti anni. Nei primi mesi del 2025 abbiamo assistito a una riduzione delle emissioni di gas serra pur in presenza di una crescita consistente del Pil: chissà che non sia questo il segnale del prevalere del secondo modello sul primo.
E, infine, il vecchio continente, quello che con il Green deal del 2019 forse più di tutti (manche se la Cina era già partita da un pezzo…) aveva puntato sulle tecnologie green per il rilancio della propria competitività industriale. E che poi si è ritrovato invischiato tra una pandemia, una crisi energetica e militare, una narrativa antiambientalista sempre più diffusa e invadente. Eppure, è stata proprio l’Unione Europea a spingere più di tutti per fare delle politiche per il clima anche un cardine per politiche industriali. Rendendo possibile quello che dieci anni fa sembrava impossibile, il raggiungimento del primo (e unico) accordo globale sul clima di Parigi a cui oggi la COP30 di Belem è chiamata a dare seguito.
Ma, soprattutto, dimostrando con i fatti che può esistere una economia prospera e competitiva, in grado di far crescere il proprio Pil di oltre il 70% dal 1990 e, al tempo stesso, tagliare le emissioni di gas serra del 37%. Per la potenza economica che forse più di tutte ha investito per rendere possibile un modello energetico diverso, dando fior di incentivi quando produrre un chilowattora di elettricità con un pannello fotovoltaico costava dieci volte più di oggi, non sfruttare oggi tutti i potenziali di quella tecnologia che nel frattempo è diventata la più economica al mondo per produrre elettricità sembra un incredibile paradosso, se non un vero e proprio suicidio industriale. E questo vale ancora di più per una regione che non dispone di riserve fossili significative e che paga un costo elevatissimo per la sua dipendenza dalle importazioni di petrolio, gas e carbone. Una bolletta da quasi 400 miliardi di euro all’anno. Che sono proprio quelli che servirebbero, secondo le stime di Mario Draghi, per portare a compimento la transizione energetica e fare del vecchio continente, come sognato a Parigi, la prima regione al mondo con una economia florida e a zero emissioni nel 2050. Semplice coincidenza o ironia della sorte?
















