Le tensioni tra Pechino e Tokyo sono riesplose dopo le parole della nuova premier giapponese su Taiwan, trasformando un tema a lungo “teorico” in un test concreto per l’equilibrio dell’Indo-Pacifico. In gioco c’è non solo la sicurezza regionale, ma anche un rapporto economico profondamente interdipendente
Dopo anni di alternante attenzione verso l’Indo-Pacifico, la regione è tornata improvvisamente al centro del dibattito. A riaccendere i riflettori è stata Sanae Takaichi, la nuova premier giapponese, che in Parlamento ha dichiarato che un eventuale attacco cinese a Taiwan potrebbe costituire una “minaccia alla sopravvivenza del Giappone”. Una formulazione che, almeno in teoria, aprirebbe la porta a un intervento militare a fianco degli Stati Uniti, sulla base delle leggi di sicurezza del 2015.
La risposta cinese è stata immediata e dura: convocazione dell’ambasciatore giapponese, avvisi contro i viaggi in Giappone, rimborsi accelerati per i turisti cinesi e la prospettiva di un nuovo bando totale alle importazioni di prodotti ittici nipponici.
Taiwan, storia e ambiguità strategica
La crisi attuale si colloca all’intersezione di tre dinamiche: la questione Taiwan, l’antica rivalità sino-giapponese e l’uso della coercizione economica da parte di Pechino. Per Tokyo, la sorte dell’isola è diventata un fattore diretto di sicurezza nazionale: una Taiwan sotto controllo cinese porterebbe la proiezione militare di Pechino molto più vicina all’arcipelago giapponese. Per la Cina, invece, Taiwan resta una questione interna, mentre il Giappone viene letto attraverso la lente della storia: il “vecchio aggressore” che torna a mostrarsi assertivo.
La figura stessa di Takaichi – erede politica di Abe Shinzo – contribuisce alla percezione cinese: leadership assertiva, nazionalismo esplicito, tono non ambiguo.
Coercizione economica e deterrenza
Pechino ha attivato un pattern ormai collaudato: fare leva su turismo, istruzione, cultura pop e import-export per creare costi immediati ai Paesi considerati ostili. Nel caso del Giappone, colpire il settore ittico e i flussi turistici serve a inviare un messaggio chiaro: toccare le “linee rosse” su Taiwan comporta conseguenze. Allo stesso tempo, la Cina per ora evita la dimensione militare diretta e si limita a incrementare le attività navali e della Guardia Costiera nel Mar Cinese Orientale, senza oltrepassare soglie apertamente belliche.
Interdipendenza e scenari
Nonostante la rivalità strategica, Cina e Giappone restano partner economici profondamente intrecciati. Catene del valore condivise, investimenti incrociati e turismo bilaterale rendono onerosa una crisi fuori controllo. Per questo, lo scenario più probabile è una de-escalation controllata, con toni duri ma dialogo tecnico aperto. Possibile, seppur meno probabile, un’escalation graduale fatta di boicottaggi e incidenti navali. Il salto di qualità arriverebbe solo se la crisi nello Stretto di Taiwan diventasse acuta, costringendo Tokyo a mostrare quanto le parole della premier corrispondano a una linea operativa.
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