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In un interessante articolo sul Sole 24 Ore, Giampaolo Galli e Yoram Gutgeld prendono una posizione decisa contro i detrattori dell’euro, indicando le conseguenze di una nostra uscita e proponendo un’analisi critica e molto sintetica della dinamica economica italiana dagli anni ’80 a oggi.

LO SCENARIO PEGGIORE PAVENTATO

Nella ipotesi, dunque, di un nostro abbandono dell’euro si sostiene o, meglio, si teme, una massiccia fuga dei capitali all’estero e, anche, un problema di sostenibilità del debito estero: entrambe le dinamiche dipenderanno da tanti fattori, ad esempio le rassicurazioni sulla tenuta del Paese (attualmente la terza potenza mondiale dopo Cina e Germania in quanto a diversificazione merceologica all’export) e sulla politica verso le  banche, visto che il FMI e l’UE minacciano, oggi, il “bail-in”, vale a dire l’espropriazione dei depositi per fronteggiare gli squilibri nei bilanci delle stesse a causa del 45% di crediti irrecuperabili; al ripristino della sovranità monetaria nazionale potrebbe infatti corrispondere una valutazione delle “sofferenze” come mancati guadagni e non come perdite (come alcuni economisti segnalano da tempo). Ugualmente, l’uscita dall’euro dovrebbe esser preceduta dal ripristino della netta separazione tra le banche di credito ordinario e i soggetti che operano sui mercati speculativi: questo neutralizzerebbe l’effetto di fuga dei capitali e, ovviamente, ce la giocheremmo in termini di tenuta industriale all’export che beneficierebbe del deprezzamento del cambio.

GLI EFFETTI SULLO SPREAD

Se tutto ciò è esatto, non dovrebbe aumentare lo spread perché i nuovi titoli sarebbero in (nuove) lire ed acquistati dalla CDP – come adesso – utilizzando il risparmio postale italiano, i cui tassi di rendimento sono più bassi di quelli dei titoli di Stato.

TORNARE AL DIVORZIO

In ogni caso è logico che il Paese dovrebbe tornare non a prima dell’euro o al ’92, ma a prima del “divorzio” tra Tesoro e Banca di Emissione (1982) che determinò tassi di interesse insostenibili, esplosione del Debito Pubblico (come ammettono anche Galli e Gutgeld), accorciamento dell’orizzonte temporale degli investimenti, conseguente disoccupazione soprattutto giovanile.

LE VERE RIFORME NECESSARIE

Quali riforme? Per fare le riforme dobbiamo rilanciare la domanda interna: quindi va bene eliminare gli sprechi, ma occorre capire che se la nostra spesa pubblica corrente rispetto al PIL è di meno di quella degli altri Paesi europei, risulta inutile accanirsi su di essa; anche la riduzione del cuneo fiscale diventa una falsa soluzione se la coperta è corta (infatti, qualcuno dovrebbe alzarsi, aprire l’armadio e prendere la coperta giusta): se riduciamo i contributi previdenziali impoveriamo i futuri pensionati, se li fiscalizziamo cosa tagliamo? I pronto soccorso? Le gambe dei banchi delle scuole? La manutenzione del territorio? Le panchine nei parchi pubblici?

LE FOLLI RICETTE

Qui si pensa che mettendo in mobilità i dipendenti pubblici o riducendo gli stipendi si diventi più competitivi: è vero il contrario, più c’è domanda all’interno e più possono ridursi i prezzi dei prodotti all’esportazione.

RIDISCUTERE PARAMETRI E TRATTATI

Conclusione: sarà meglio accelerare sulla proposta originaria di Enrico Letta a ridiscutere parametri e Trattati Europei prima che sia troppo tardi e la crisi sociale ci travolga; occorre far circolare i crediti con meccanismi di compensazione a tutti i livelli e capire che gli investimenti dei privati riprenderanno con la crescita (anche delle prospettive di profitto) e non con i tagli; ma perché ciò avvenga e l’euro sopravviva occorre innanzitutto che l’Europa accetti prospettive di finanziamento del traino di investimenti pubblici autorizzati nei vari Paesi in proporzione ai livelli della disoccupazione e non a parametri incomprensibili ed arbitrari.

Altrimenti l’unica alternativa sarà quella di lasciare l’euro.

Nino Galloni

Sindaco dell’INPS 

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