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L’Italia non può uscire dall’euro, ma c’è ormai nell’eurozona un evidente problema di compatibilità tra sovranità nazionale e direttive europee. Perfino in Germania si sono avuti ampi dibattiti sul paradosso di scelte dell’Ue minoritarie in un parlamento nazionale.

La compatibilità dei singoli Paesi alle regole di Maastricht ha vissuto ovviamente la contrapposizione di interessi non omogenei. L’Italia ha come gli altri Paesi ceduto, accettando l’euro, di perdere l’autonomia della politica monetaria con pesanti condizionamenti delle politiche strutturale e fiscale. Il grande specchio per le allodole è stato il fatto che euro significava riduzione e stabilità del costo del denaro, aspetto esiziale con un grande debito pubblico. La cessione di parte della sovranità sulle scelte economiche ha visto progressivamente prevalere la visione rigorista in tempi resi difficili dalla crisi mondiale. Questo è avvenuto anche perché l’Europa non ha saputo propugnare una politica di sviluppo.

Quando nel 2003 Tremonti fu determinante per evitare l’infrazione per il prolungato sforamento del rapporto deficit/pil a Francia e Germania (con le ire di Austria, Olanda, Spagna e Finlandia) si creò un asse italo-franco-tedesco che cercava di recuperare le suggestioni di Delors di costruire una grande Europa di sviluppo. Quel patto non è durato abbastanza, vuoi per le alternanze politiche vuoi per le ripercussioni feroci dell’economia virtuale. Il risultato è che l’Europa per sopravvivere ha riscoperto gli egoismi nazionali (e non ha fatto pagare agli speculatori e alle banche, ma alle classi deboli, la crisi mondiale). L’Italia in Europa è contribuente netto, non ha ricevuto salvataggi economici e non ha utilizzato fondi per le banche.

Non si capisce quindi perché l’Italia sia accomunata ai PIGS nella crisi di credibilità quando la Grecia e le banche europee (vedi Spagna) vengono salvate con il nostro contributo(cioè con i sacrifici degli italiani). L’Italia ha già erogato (e altri ne erogherà) per i fondi salva stato e salva banche quasi 55 miliardi di euro che, considerando l’andamento dei titoli di stato, rendono il nostro contributo più oneroso di chi ci precede in valori assoluti come Germania e Francia. In pochi anni, oltre a vanificarsi gli afflati per una grande Europa solidale, potenza economica e politica, si sono ridotti gli spazi di autonomia nazionale nei rapporti con i BRICS e le nuove realtà.

Se rimane strategicamente valida l’opzione atlantica, il centro delle scelte economiche continentali ha ormai lasciato anche Parigi ed è stabilmente a Berlino. I commissari europei sono sempre più deboli e gli spazi di autonomia nazionale sono già ipotecati dal fiscal compact. Appare oggi evidente che accelerare l’unione economica nella disomogeneità e senza riuscire ad avere una vera costituzione europea comporta l’ovvio rischio di uno sviluppo asincrono e di dubbio rispetto della concezione liberale di democrazia partecipativa. Le classi dirigenti dei paesi europei non sembrano in grado di seguire l’esempio di Adenauer, Schuman e De Gasperi, apparendo piuttosto lobbies incapaci di indicare una via eticamente motivata.

In altri termini la costruzione di un nuovo ordine mondiale non può trascurare oltre misura le sovranità nazionali e non può spacciare per razionalizzazione sovranazionale una semplificazione culturalmente inadeguata. Il rischio evidente è la banalizzazione del multilateralismo come già oggi spesso denunciamo nei limiti dell’Onu.

L'anima politica che serve all'Europa economica

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