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Grazie all’autorizzazione dell’autore, pubblichiamo il commento di Federico Guiglia uscito sull’Arena di Verona.

Da sessant’anni tondi il Parlamento crede di poter “aggiustare” l’indecenza di istituti vecchi, malfunzionanti e sovraffollati con provvedimenti libera-tutti: tredici amnistie a volte con o senza indulto sono state approvate dal 1953 a oggi.
Ma anche in politica non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire. Sentire il fallimento perfino dell’ultimo indulto accordato nel 2006 sull’onda della clemenza richiesta da Karol Wojtyla, il primo pontefice della storia che varcava la soglia di Montecitorio per rivolgersi a deputati e senatori riuniti in seduta congiunta per ascoltarlo.

Come finì quell’indulgenza parlamentare e plenaria? Per ricordarlo, basta leggere l’importante e onesto messaggio che il presidente della Repubblica ha inviato alle Camere. Nero su bianco, Giorgio Napolitano ha raccomandato al legislatore ulteriori misure amministrative e di reinserimento sociale “onde evitare il pericolo di una rilevante percentuale di ricaduta nel delitto da parte di condannati scarcerati per l’indulto, come risulta essere avvenuto in occasione della legge n.241 del 2006”. Non solo.

Prima di prospettare l’amnistia e l’indulto per rimediare all’ingiustizia e alla disumanità dei troppi detenuti in cella, il capo dello Stato elenca ben sette e diverse soluzioni possibili. Vanno dalla depenalizzazione di reati minori alla costruzione di nuove carceri, alla “messa alla prova” del condannato non necessariamente in galera, e così via. Ma così come l’indulto del 2006 fu determinato, certo, dalle condizioni già allora insopportabili dei nostri istituti di pena, e soprattutto dall’intervento eccezionale del Papa, anche stavolta c’è un’eccezione che spinge. L’eccezione si chiama Europa.

Se entro il 28 maggio 2014 lo Stato non interverrà per sanare la situazione, saremo condannati dalla Corte europea per una valanga di ricorsi già depositati o in arrivo. Dunque, il problema è come evitare i preannunciati e pesanti risarcimenti rischiando, inoltre, di passare agli occhi del mondo come il Paese che non solo viola i principi di “senso di umanità” e “rieducazione del condannato” inseriti nella sua stessa Costituzione (articolo 27), ma che conserva un sistema carcerario barbaro e umiliante. Oltre al danno, sarebbe la beffa, visto che il carcere da noi rappresenta l’ultimo stadio di un sistema penale e di procedura penale che brilla non per severità né durezza ma, al contrario, per la difficoltà di individuare, processare in tempo e punire con equità gli autori di reati e delitti.

Proprio l’impunità che regna sovrana, e che ogni volta è testimoniata con dati allarmanti alle cerimonie di apertura dell’anno giudiziario, dovrebbe indurre il Parlamento a non ricorrere al solito (e quattordicesimo) colpo di spugna. Otto mesi di tempo al 28 maggio 2014 sono più che sufficienti per far sorgere nuovi e moderni penitenziari. E poche settimane basterebbero per trasformare caserme dismesse in luoghi civili per condannati dopo ben tre gradi di giudizio – dunque non più “presunti innocenti” -, o in attesa di giudizio se accusati di gravi delitti.

La disparità di trattamento che c’è fra l’imputato super-garantito e la dimenticata vittima del reato o i suoi familiari, la totale mancanza di “certezza della pena” e il criterio del tutto disatteso del “chi sbaglia, paga”, dovrebbero scoraggiare il legislatore dall’approvare il perdono di Stato. “Il senso di umanità” e la “rieducazione del condannato” non c’entrano proprio niente col “tutti a casa”, dettato soltanto dall’incapacità della politica e dell’amministrazione pubblica di fare le cose per tempo e per bene.

L'amnistia non serve a risolvere il problema delle carceri

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