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Galvanizzato da uno yen ai minimi da meta settembre, il Nikkei  (+2.2%) è stato l’unica star di una seduta asiatica nuovamente apatica e svogliata. Le prime notizie sugli esiti del Plenum cinese sono improntate più alla retorica che alla sostanza. Si parla di un ruolo più rilevante dei mercati nell’allocazione delle risorse, ma per il momento ufficialmente non è emerso nulla di specifico. Un po’ poco per alimentare particolare eccitazione. In generale dollaro forte (vs divise emergenti) e rendimenti US in rialzo continuano a “bagnare le polveri” a diversi emergenti dell’area asiatica.

IL PENSIERO DI DRAGHI

La baldanza di Tokyo non si è trasferita alla seduta europea. Tra i catalist indicati, il circolare insistente di un’indiscrezione del  Frankfurter Allgemeine Zeitung, al quale una fonte anonima interna all’ECB avrebbe rivelato che Draghi sarebbe seriamente preoccupato del rischio deflazione in Europa, pur evitando di ammetterlo in pubblico. Peccato che il bund, in simpatia col treasury, abbia tenuto una price action debole tutta la mattina, non proprio un comportamento coerente con una deflation scare.

INFLAZIONE INGLESE

Restando in tema di inflazione, vale la pena di osservare come la recente forza dell’economia UK  (PMI manifatturiero a 56, quello servizi addirittura a 62.5) non abbia impedito all’inflazione inglese di sorprendere a sua volta al  ribasso le stime (0.1% da precedente 0.4% vs attese per 0.3%). Il dato anno su anno è sceso di 0.7% in 4 mesi e, al 2.2% è ai minimi da 2009 (toccati anche a settembre 2012).

LE PRESSIONI DEFLATTIVE

In generale l’impressione è che  pressioni disinflattive siano al momento presenti in tutte le economie sviluppate. A prescindere dall’affidabilità delle fonti del FAZ, come argomentavo giorni fa, Draghi ha i suoi motivi per preoccuparsi.

In US era prevista la pubblicazione di 2 “pesi medi”:

– Il NFIB Small Business optimism di ottobre ha deluso  (91.6 da prec 93.6 e vs attese per 93.5) facendo segnare il minimo da marzo scorso. La maggior parte del calo è dovuta a significativi deterioramenti delle subcomponenti “hiring plans” e “expectations for future business conditions”. Il 37% degli intervistati indica il clima politico come causa principale, il che fa sperare in un effetto in parte transitorio. Detto questo, bisogna tenere a mente che a dicembre a Capitol Hill ricomincerà lo show sul budget.
Inoltre uno sguardo al grafico della serie mostra come negli ultimi 5 anni il livello 93-94, in passato toccato solo in occasione di recessioni, abbia respinto i vari assalti, fungendo da “resistenza”.

E’ un altra dimostrazione che più ci allontaniamo da Wall Street, più la percezione della ripresa perde vigore.

– La FED di Chicago ha pubblicato, in ritardo causa shutdown, il suo Activity Index per settembre, indicante un lieve miglioramento rispetto ad agosto (0.14 da prec 0.13 e vs attese per 0.15). L’attività resta ancora leggermente sotto trend.

L’IMPATTO ECONOMICO DELLO STALLO POLITICO AMERICANO

L’impressione personale è che, pur nella “nebbia” causata sullo scenario macro dagli effetti dello shutdown sulle serie, si intravedano i tratti di quello che sembra un impatto asimmetrico dello stallo politico sull’ economia US: corporate america lo ha abbastanza snobbato (lo si nota dai livelli degli ISM e delle altre survey di business), mentre i consumatori e le piccole aziende lo hanno vissuto molto peggio come testimoniano le consumer confidence e il dato di oggi.

IL REBUS

Il payroll di venerdi, in questo contesto costituisce un po’ un rebus. Ma c’e’ un particolare del NFIB di ieri che fornisce un ipotesi di spiegazione: la creazione di posti di lavoro della piccola e media impresa US è stata positiva ad ottobre (+0.11 impiegati ad azienda). Sono i piani di assunzione per il futuro ad essersi deteriorati. In altre parole il payroll report di ottobre potrebbe aver sovrastimato leggermente la salute del mercato del lavoro statunitense, proprio come quello di settembre la aveva sottostimata.
Resto dell’idea che la situazione sia assai troppo incerta perche la FED si precipiti a fare tapering tra un mese, e richieda con ogni probabilità un periodo significativamente più lungo.

Mentre scrivo, il membro FED Lockhart, assai meglio posizionato per elargire pareri sull’argomento, esprime il concetto opposto ( LOCKHART SAYS TAPERING `COULD VERY WELL TAKE PLACE’ NEXT MONTH ), alimentando una mini fiammata di risk adversion in un mercato già messo un po di malumore dai dati macro.

Vedremo, ma a mio giudizio i rischi di disinflazione dei paesi sviluppati e l’impatto dello stallo politico passato e futuro sull ‘economia US costituiscono per gli investitori  2 fonti di preoccupazione più rilevanti rispetto ad un tapering anticipato.

Giuseppe Sersale
Strategist di Anthilia Capital Partners Sgr

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