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Il 15 Ottobre il disegno di legge di stabilità verrà approvato dal Consiglio dei Ministri, a chiunque abbia, al tavola di Palazzo Chigi, la tentazione di proporre misure restrittive od ancor peggio di aggravio della pressione fiscale contributiva, si dovrebbe passare una sintesi del World Economic Outlook (WEO) appena diramato a Washington in occasione della recente assemblea annuale della Banca mondiale e del Fondo monetario.  Se, avviluppato da questioni di partito e di corrente non ha letto il documento, è bene che lo faccia prima che si assumano provvedimenti in grado di causare altri guai alla malconcia economia italiana.

In breve, il treno della crescita internazionale è già passato. Non lo abbiamo preso in quanto occupati a litigare ed è difficile che si ripresenti, nel breve termine l’occasione. Quindi, dobbiamo utilizzare con le mani nostre tutte le leve per la crescita a nostra disposizione.

La crescita a marcia lenta 
Il WEO sostiene che la crescita mondiale è in “low gear”- ossia in una marcia lenta; la prima o la seconda. Le economie avanzate sono alle prese con l’urgenza di “riparare i loro settori finanziari”, consolidare la finanza pubblica ed impedire un aumento della disoccupazione. I Paesi emergenti devono far fronte “alla doppia sfida” di un rallentamento del loro sviluppo endogeno e di restrizioni sempre più severe della finanza internazionale. Non c’è quindi da stare allegri. Ovviamente il quadro peggiora se negli Usa Casa Bianca e Congresso non trovano un accordo sul bilancio e sul tetto al debito.

I segnali della deglobalizzazione
Come è noto, il WEO ha una prospettiva di due-tre anni. L’aspetto più grave è che si  vedono segni concreti di una de globalizzazione, di cui la crisi finanziaria è un sintomo piuttosto che una determinante, non messi in evidenza nel WEO. In altri termini, (come ho sostenuto sin dalla fine del primo decennio di questo secolo) occorre capovolgere le affermazioni banali sulle implicazioni (sull’economia reale) del tormentone sulle piazze finanziare e comprendere come quanto avviene, ormai da anni, sui mercati finanziari è, piuttosto, conseguenza di disfunzioni dell’economia reale. Sono proprio gli esperti della moneta a dirlo.

Già anni fa Paul Tucker del Monetary Policy Committee (il direttorio) della Bank of England in un saggio pubblicato nel “Bollettino” dell’istituto d’emissione britannico sottolineava due punti importanti: a) è la prima volta che una crisi di questa portata avviene in periodo di pace; b) una delle sue determinanti è il “Social Contract” (noi lo chiameremmo giornalisticamente l’inciucio) tra banche centrali ed autorità politiche per fare fronte a problemi economici sistemici.

Le considerazioni di Nardozzi
Tale “Social Contract” ha dato priorità all’innovazione finanziaria, senza, però, definire regole congrue. Sino a quando è giunta l’implosione – una rarità in tempo di pace e dopo che, in seguito alla depressione degli Anni Trenta le autorità di politica economica hanno appreso a gestire domanda aggregata con strumentazione tale, in certi casi, di consentire pure il “fine tuning” (virtuosismo).

Considerazioni simili si leggono in una raccolta di saggi, curata da Gian Giacomo Nardozzi, per i tipi della Luiss University Press: “Asset Prices and Monetary Policy Rules: Shall we Forsake Financial Markets Stabilization?” (Prezzi delle attività economiche e regole di politica monetaria: dobbiamo rinunciare alla stabilizzazione dei mercati finanziari”?). Il titolo della raccolta è eloquente: ci induce a guardare con maggiore attenzione all’economia reale.

Che cosa stanno decidendo i Paesi emergenti 
La degloblalizzazione sta prendendo forma concreta e mordente nel settore finanziario. Numerosi Paesi emergenti, a cominciare dal Brasile, hanno introdotto controlli ai movimenti di capitale per frenare flussi di capitali a breve che potrebbero destabilizzare le economie interne. Anche all’interno dell’eurozona, e pure da parte di esponenti politici italiani, sono stati suggeriti controlli ai movimenti di capitale (per frenare evasione ed elusione tributaria, per spingere i risparmiatori a comprare titoli di debito pubblico) che “siano compatibili con le regole dell’unione monetarie o armonizzati nell’eurozona” (chiaro segno di analfabetismo economico- finanziario da parte dei proponenti). Se restrizioni a flussi di capitali caldi possono essere considerati, in certi casi, in Paesi emergenti (vedi lezioni della crisi asiatica del 1997-98), nell’eurozona equivarrebbero allo smantellamento dell’unione monetaria con annessi e connessi.

I segnali internazionali preoccupanti
Ci sono segnali preoccupanti pure in materia di commercio internazionale, anche se l’Organizzazione Mondiale del Commercio, pur se non è riuscita a portare a termine la Doha Development Agenda (DDA) ed ad impedire la proliferazione di una ragnatela di accordi preferenziali commerciali (circa 300) che segmentano il commercio mondiale, vigila e tenta di rilanciare negoziati  multilaterali. Ciò nonostante soltanto le regole in materia di contenuto ‘locale’ negli appalti pubblici hanno causato, secondo il Petersen Institute for International Economics, una perdita di 93 miliardi di dollari di scambi internazionali.

Che cosa può fare il governo Letta
In questo scenario di crescita lenta dell’economia mondiale e di ritorno ai protezionismi, cosa può fare il Governo? In primo luogo, una legge di stabilità orientata alla crescita riducendo pressione tributaria, cuneo fiscale e vincoli regolamentari. C’è ampio spazio per le coperture in spese pubbliche improduttive, ‘contabilità speciali’ presso questo o quel Ministero, “avanzi d’amministrazione”. Se a consuntivo si sfora il ‘fatidico 3% del Pil, non rotoliamoci per terra e non strappiamoci i capelli. Inoltre, Enrico Letta dovrebbe non solo bacchettare quei suoi Vice Ministri che insistono per “più tasse e più spese”, ma ricordarsi di essere stato, al suo primo incarico governativo, Ministro del Commercio per l’Estero e tappare la bocca a chi sta frenando il negoziato per la Transatlantic Partnership per questa o quella “eccezione culturale”, nonché insistere perché la Commissione Europea esca da posizioni equivoche su questo argomento e prenda un chiaro orientamento a favore della liberalizzazione si scambi di beni e servizi e di movimenti di capitali nell’area UE-Nord America – il migliore antidoto ad una frenata mondiale di cui l’Italia sarebbe tra i più danneggiati.

Legge di stabilità. Abbiamo già perso il treno?

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