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Una pioggia di denaro si appresta a cadere sull’Egitto, pedina strategica nello scacchiere mediorientale, dove si misurano le ambizioni e i timori delle potenze dell’area.

LA VITTORIA DEI PETRODOLLARI
Gli equilibri geopolitici della zona sono ricostruibili attraverso i finanziamenti che tengono in vita la boccheggiante economia egiziana, come notato da Alberto Negri sul Sole 24 Ore di domenica scorsa.
Prima della deposizione del presidente Mohamed Morsi lo scorso 3 luglio, il governo egiziano riceveva da Qatar e Turchia rispettivamente quattro e due miliardi di dollari. Motivo per cui, una volta caduto Morsi, i due Paesi hanno gridato al golpe e chiesto l’intervento dell’Onu per difendere il regime dei Fratelli musulmani.
Il loro posto è stato preso da altri Paesi arabi ben disposti a sostenere il colpo di Stato: l’Arabia Saudita che ha varato un piano di aiuti per cinque miliardi di dollari, il Kuwait ne ha offerti quattro e gli Emirati Arabi Uniti altri tre. Un modo relativamente semplice per salvare le finanze egiziane sull’orlo della bancarotta e mettere così le mani sulle future scelte politiche del Paese, intento a ritrovare un equilibrio ancora precario dopo aver sfiorato in queste ore la guerra civile, alla quale potrebbero dare nuovo impulso la scarcerazione dell’ex dittatore Hosni Mubarak e l’arresto del capo spirituale della fratellanza, Mohamed Badie.

LE MIRE SUL MEDIORIENTE
L’obiettivo di questa iniezione di denaro, guidata dai sauditi, è duplice: marginalizzare le altre potenze interessate al controllo sull’area, come la Turchia, e allo stesso tempo subentrare agli occidentali nel sostegno all’economia del Cairo.
Un piano condotto con tutti i mezzi possibili: denaro si è detto, ma anche servizi segreti, diplomazia, esercito e la televisione panaraba Al Arabiya, guarda caso diretta concorrente della qatariota Al Jazeera, pronta ad entrare nel mercato televisivo a stelle e strisce, che diffonde nell’etere opposti messaggi di sostegno ai Fratelli musulmani.

L’INCERTEZZA AMERICANA
Ma più che le finanze saudite, per il momento, a tagliare gli Stati Uniti fuori dalla partita egiziana è stata piuttosto la debolezza della politica estera del presidente americano Barack Obama. Dopo aver condannato fermamente la condotta dell’esercito, reo di aver aperto il fuoco sui manifestanti, Obama aveva annunciato di voler sospendere l’invio di 1,55 miliardi l’anno che gli Usa versano nelle casse del Cairo, salvo poi ritrattare poche ore dopo tramite fonti diplomatiche e del Pentagono. Oggi La Stampa, in un pezzo di Paolo Mastrolilli, spiega invece come “gli Stati Uniti hanno cominciato i primi passi formali per bloccare gli aiuti economici all’Egitto, ma per ora si tratta solo dei finanziamenti destinati ai progetti civili, non il grosso dei soldi che va invece ai militari”. L’atteggiamento “timido” di Obama sarebbe dettato da un lato dalle spinte domestiche – soprattutto repubblicane – a chiudere i rubinetti, dall’altro dal timore che l’Egitto chiuda l’accesso al canale di Suez, “da cui passano il 7% del petrolio e il 13% del gas liquefatto trasportati via mare in tutto il mondo” e “le rotte aeree che consentono al Pentagono di raggiungere l’Afghanistan e l’intera regione mediorientale“. Paure acuite proprio dall’atteggiamento spavaldo dell’Egitto e dalle parole di encomio al re saudita Abdullah da parte del generale Abdel Fattah Al-Sisi, che ora si sente forte del denaro assicuratogli dalla monarchia del Golfo, con il quale potrebbe sostituire senza troppi patemi gli aiuti americani. Ciò potrebbe involontariamente favorire un’entrata della Russia, che per il momento osserva silenziosa, nei nuovi equilibri dell’area.

LA FUGA EUROPEA
Chi pare invece aver completamente abdicato a un ruolo nel futuro politico del Medioriente è l’Unione europea, che ha fatto sapere attraverso alti funzionari che potrebbe presto sospendere il pacchetto da cinque miliardi di dollari che i Paesi membri avevano stanziato lo scorso novembre per sostenere la transizione dal regime di Mubarak a uno Stato democratico. Un progetto dal quale l’Europa – che sul tema affronterà giovedì una riunione dei ministri degli Esteri dell’Ue a Bruxelles – sembra in tutta fretta recedere, forse consapevole di come nella guerra fra diplomazie, in tempi di crisi economica, sia impossibile per il mondo libero tenere il passo dei meno liberi ma senz’altro più ricchi Paesi arabi.

LA PAURA DEL CONTAGIO
A una lettura espansionistica dell’impegno saudita in Egitto si affiancano valutazioni di più stretto e immediato pragmatismo, come evidenzia il Corriere della Sera in un pezzo a firma di Giuseppe Sarcina.
C’è da dubitare che al re Abdullah – spiega l’inviato del Corriere al Cairo – prema davvero salvaguardare la culla della storia araba e islamica.
Piuttosto dietro all’ingente sostegno ci sarebbe la paura che “la destabilizzazione dell’Egitto possa portare all’esportazione del movimentismo dei Fratelli musulmani nella regione, alla crescita del terrorismo, ma soprattutto alla domanda di partecipazione da parte delle folle finora rimaste in sonno nei Paesi del Golfo”.
Questo il motivo per cui in passato i sauditi hanno tentato anche un approccio con Morsi: non conta l’interlocutore, quanto il messaggio di severa condanna e di stroncatura dei movimenti sovversivi, da qualunque parte provengano. Sempre che l’imprevedibilità della piazza, come già accaduto, non scombini piani dati già per certi.

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