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Da Washington a Roma, passando per Urbino, con un pezzo di cuore a Bologna, dove ha vissuto 5 anni. Ellen Nakashima, che nella sua carriera di giornalista ha vinto tre premi Pulitzer, tutti con i colleghi del Washington Post, mi ha raccontato come ha iniziato a occuparsi di sicurezza nazionale, quanto è profonda la frattura tra democratici e repubblicani in vista delle presidenziali, e che direzione prenderà lo scontro tra Stati Uniti e Cina. Prima di entrare nel vivo dell’intervista, ha riflettuto sulla storia di Urbino, dove le è stato consegnato il premio omonimo, conferito ogni anno a un giornalista statunitense dalla Città di Urbino, con il patrocinio del Centro Studi Americani, in collaborazione con Ministero degli Esteri e dell’Ambasciata d’Italia a Washington. La città marchigiana, sotto il comando di Federico di Montefeltro, mise la propria avanzata tecnologia militare al servizio del benessere per i suoi cittadini.

“Non posso non pensare a quanto succede nel mondo contemporaneo. Ho iniziato a seguire i temi di sicurezza dopo gli attacchi terroristici dell’11 settembre, quando il governo statunitense ha impiegato l’avanzatissima tecnologia di cui esso disponeva (e dispone tutt’ora) per prevenire il verificarsi di nuovi episodi del genere, tramite l’acquisizione del maggior numero possibile di informazioni”. Le attività dell’apparato securitario nazionale venivano tenute nascoste, per cercare di non comprometterne l’operato, ma allo stesso tempo per garantirgli un velo di segretezza che permetteva di agire senza particolari vincoli, legali o morali. Questo modus operandi è stato la causa del un grandissimo dibattito pubblico sulla contrapposizione tra sicurezza da una parte e privacy e rispetto dei diritti dall’altra, “un dibattito che è un pendolo, che oscilla in una direzione o nell’altra anche in funzione delle emergenze”. Quando c’è un attacco o un pericolo, i cittadini sono disposti a cedere sui diritti in cambio di più sicurezza. In tempo “di pace”, il ragionamento sulle libertà civili prende il sopravvento, basti pensare agli estremi del Patriot Act e dei leaks di Edward Snowden.

Oggi siamo in una fase di transizione, con la discussione sul rinnovo di una delle principali leggi sulla sorveglianza, il Foreign Intelligence Surveillance Act, con l’Amministrazione Biden che potrebbe restringere i poteri dell’Fbi. Da una parte si cercano di mettere ulteriori freni alle agenzie di sicurezza, dall’altra si cerca di non ridurne l’efficacia.

Un confronto che sarà sicuramente influenzato dalla diffusione dell’Intelligenza Artificiale. E viceversa: rispetto a casi simili del passato, c’è una maggiore consapevolezza da parte del pubblico e delle istituzioni sia sulle opportunità che sui rischi legati a questa tecnologia. E proprio per questo “il governo americano ha deciso di rivolgersi al settore privato, fautore dello sviluppo di questi sistemi, per elaborare un sistema di norme volontarie e di standard di comportamento atte a garantire un uso saggio dell’Intelligenza Artificiale”, rimarca Nakashima. Sempre nell’ottica di un utilizzo “corretto” della tecnologia. E in questo processo il ruolo dei giornalisti è fondamentale: devono essere imparziali e non lasciarsi trasportare in alcun modo, per poter raccontare al meglio gli sviluppi di questa tecnologia. Sviluppi che possono essere “sorprendenti”.

L’intervista tocca anche il tema di come le nuove tecnologie possano contribuire ad interferire nei processi elettorali. L’uso, anzi l’abuso delle piattaforme tecnologiche, ha contraddistinto l’intervento russo nella competizione elettorale 2016, anche se con “un’efficacia relativa”: la vera causa della polarizzazione e della divisione interna alla società è da ricercarsi piuttosto nell’azione degli attori nazionali statunitensi. Mosca soffia sul fuoco, ma non riesce ad appiccarlo, pur avvalendosi di tutte le tecnologie emergenti. È molto probabile che anche nelle prossime elezioni europee assisteremo a un tentativo di influenza da parte russa, così come lo vedremo anche nelle elezioni nazionali dei singoli paesi, soprattutto di quelli dell’Europa Orientale.

Ma oggi la popolazione è molto più conscia della disinformazione galoppante, e di conseguenza ne è meno vulnerabile. “Il modo migliore per contrastarla è costruire una capacità di risposta da parte della società, e questo è un lavoro difficile perché significa affrontare le cause di fondo delle disfunzioni e delle fratture, che spesso sono sociali ed economiche, non solo propagandistiche. Per questo motivo, sanare queste crepe è un lavoro che richiede anni, tempo e sforzi. Non è facile e non è sexy, ma è il modo migliore e l’unico modo”, afferma Nakashima.

Sulla cybersecurity nella sua accezione più generale la giornalista rimarca come sia necessario costituire una solida infrastruttura di difesa per proteggersi efficacemente. Le minacce cibernetiche non riguardano infatti soltanto l’infospace, ma possono anche impattare sul mondo ‘reale’, e una struttura forte permette di limitare i danni. La prova di ciò è l’Ucraina, dove in seguito all’invasione su larga scala non si sono verificati attacchi informativi distruttivi come quelli che si prevedevano, probabilmente per via del funzionamento del suo sistema di difesa cyber. L’esposizione agli attacchi informatici russi sin dal 2014 ha permesso loro di adattarsi e di preparare una vera e propria barriera cibernetica. Gli Stati Uniti hanno agito in questo senso già all’indomani dell’11 settembre, creando nuove agenzie e istituendo un vero e proprio comando informatico nel 2009. Anche l’Italia sta lavorando in questa direzione attraverso l’Agenzia per la Cybersicurezza nazionale, sfruttando le lezioni apprese dai paesi partner. Come quella dell’importanza del rapporto con il settore privato, che rispetto alla Pubblica Amministrazione ha fatto molti progressi in questo campo.

Nakashima affronta anche il tema delle relazioni tra Stati Uniti e Cina, relazioni che vede come competitive e che ritiene siano destinate a rimanere tali nel medio periodo, a causa delle ambizioni della Cina di affermarsi come la maggiore potenza mondiale, tramite l’espansione del suo apparato militare sia nella regione indo-pacifica che nel resto del mondo. E negli Stati Uniti vi è una tendenza bipartisan ad ostacolare l’ascesa di Pechino, cercando di rallentarne lo sviluppo economico e di mantenere la propria superiorità tecnologica, soprattutto nel campo delle emerging disruptive technologies, due dimensioni fondamentali per il rafforzamento della capacità bellica cinese. L’esito delle elezioni del 2024 non andrà a influenzare questo approccio, che sarà portato avanti tanto da un’amministrazione repubblicana quanto da una democratica. E in questa competizione serrata il ruolo del Global South risulta prominente: entrambi gli attori stano cercando di accattivarsi le simpatie dei paesi non-allineati, e chi riuscirà in questa impresa godrà di un grandissimo vantaggio.

L’intervista si conclude parlando dell’appoggio di Washington all’Ucraina e del suo rapporto con l’Europa, due questioni “suscettibili” in vista delle elezioni 2024. Un eventuale avvicendamento alla Casa Bianca avrebbe sì delle conseguenze in questi campi, ma più per ragioni economiche che geopolitiche. Il rischio concreto di uno shutdown dell’amministrazione, e l’attenzione dell’elettorato (soprattutto repubblicano) per temi di carattere domestico potrebbero sancire una riduzione delle spese di politica estera, con tutte le conseguenze del caso. A trent’anni dalla frase di James Carvill, stratega di Clinton, è sempre “the economy, stupid!”.

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