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Un martire da venerare e un eroe civile da commemorare. Non solo fede ed esempio di onestà, quanto confronto con l’attuale realtà sociale ed ecclesiale. Per padre Pino Puglisi i 30 anni trascorsi dalla sera dell’agguato mortale compiuto sotto casa, il 15 settembre 1993 da due sicari della cosca mafiosa capeggiata dai fratelli Giuseppe e Filippo Graviano, non solo non sono stati scalfiti dall’oblio e dalla retorica ma anzi sono lievitati fino a trasformarsi in dirompenti termini di paragone fra l’impegno missionario di don Pino e quel che è rimasto della sua eredità spirituale e della emancipazione culturale della borgata di Brancaccio, periferia sud-est di Palermo. Connotata da miracoli concreti, l’eredità di padre Puglisi inizialmente caratterizzata dal dirompente pentimento dei due killer che lo avevano assassinato, Salvatore Grigoli e Gaspare Spatuzza, aveva determinato la forte presa di coscienza della Chiesa siciliana.

Sulla scia dell’anatema di papa Giovanni Paolo II nella Valle dei Templi di Agrigento contro i padrini di Cosa Nostra – “Convertitevi, un giorno verrà il giudizio di Dio” – don Pino, parroco della chiesa di San Gaetano nel cuore di Brancaccio, non perdeva occasione per ricordare ai fedeli che alla mafia c’era eccome un’alternativa. Che la sopraffazione non si poteva accettare. Che occorreva ribellarsi. E soprattutto insegnava carità e legalità ai figli dei mafiosi e agli alunni delle elementari della borgata.

Diametralmente all’opposto dell’intento criminale di mettere a tacere la voce della coscienza cristiana, l’uccisione di 3P, come veniva affettuosamente chiamato in gergo padre Pino Puglisi, ha invece segnato la maledizione dei godfather brother, i fratelli padrini Graviano e dell’intera mafia. All’arresto dei due boss fino allora latitanti di lusso fra Venezia, il lago di Garda e Portofino è seguito infatti il clamoroso pentimento dei loro killer Spatuzza e Grigoli che hanno rivelato l’intera trama di connivenze politico affaristiche e delineato la strategia terroristica delle stragi di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino del 1992 e delle bombe dell’estate del 1993 a Roma, Firenze e Bologna. Una maledizione che con le morti in carcere dei capi dei capi Totò Riina e Bernardo Provenzano e la recente cattura di Matteo Messina Denaro sembra aver concretizzato l’implicita profezia della fine della mafia degli anni Ottanta, prospettata dal pontefice polacco e ribadita di recente da papa Francesco.

Un sipario che incombe anche sul nuovo ed epocale miracolo al limite dell’impossibile che potrebbe essere attribuito al Beato Puglisi: l’eventuale pentimento di Filippo e Giuseppe Graviano, i quali poco più che sessantenni, restano in bilico fra la scelta di marcire in carcere per il resto delle loro esistenze e la possibilità di partecipare in qualche modo all’adolescenza dei loro figli.

Cause ed effetti visti dalla parte della Chiesa rappresentano il punto di partenza della doppia scossa dell’anatema di papa Giovanni Paolo II e dell’assassinio di padre Puglisi che ha mobilitato per oltre un decennio le diocesi siciliane allora guidate dall’arcivescovo di Palermo, il cardinale Salvatore Pappalardo, già precursore fin dai tempi del maxiprocesso di omelie di denuncia e scomuniche nei confronti di Cosa Nostra. Da allora la spinta antimafia e soprattutto la presenza missionaria della chiesa siciliana nelle periferie, una presenza testimoniata dal martirio del Beato Puglisi, sembra essersi però complessivamente arenata.

È quanto denunciano due sacerdoti di frontiera di Palermo, Cosimo Scordato e Francesco Romano, che alla vigilia del Sinodo universale dei vescovi che si terrà in autunno in un libro di imminente pubblicazione tracciano un dirompente confronto fra l’attualità ecclesiale e l’esempio di padre Puglisi. Radiografando fede e malafede i due sacerdoti affrontano temi scottanti, come il ruolo paritario che nella Chiesa andrebbe riconosciuto alle donne, il celibato, gli episcopati spesso burocratici, distanti dai fedeli ma vicini al potere politico.

Un’analisi con lo sguardo rivolto soprattutto alla chiesa del futuro. Che è in sostanza quella profetizzata da padre Puglisi.

Una Chiesa incentrata su valori trascendentali e diritti universali, ma calata nella realtà e non ridotta a custode di incommensurabili patrimoni artistici e monumentali e all’utilizzazione di basiliche e parrocchie soltanto per battesimi, matrimoni e funerali.

“Se non vogliamo ridurre don Pino Puglisi a un santino”, afferma don Romano, “bisogna uscire dal chiuso delle Sacrestie e confrontarsi con la modernità, con questo tempo accelerato nei cambiamenti, sia sociali che religiosi. Cambiamenti che determinano incertezze, ricerca di nuove vie, estremismi laceranti, odio sociale, ma anche speranza ed essenzialità nella ricerca della libertà e della vita in tutte le sue varie manifestazioni, aprendo la strada verso una maggiore conoscenza dell’uomo. Una conoscenza che è sempre nuova e sempre diversa. In caso contrario c’è solo la morte”.

“Valori antidoto all’insulso individualismo e alle ingiustizie” sintetizza, ricordando l’esempio di padre Puglisi il cardinale Matteo Zuppi, che non a caso presiederà nella storica Cattedrale normanna di Palermo la solenne concelebrazione commemorativa dell’anniversario del martirio del Beato Puglisi. Un intervento diretto quello di Zuppi che, oltre a rivelare l’attenzione del Vaticano, assume il valore di un incoraggiamento e un sostegno alla Chiesa siciliana affinché rilanci lo spirito di padre Puglisi. “Altro che uomini d’onore, come amano definirsi: i mafiosi sono dei vigliacchi! La Chiesa deve e può fare molto per combattere la mafia”, ha recentemente affermato il presidente della Conferenza episcopale italiana, testimone di una Chiesa in cui contano più gli esempi che le parole.

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