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La shuttle diplomacy di John Kerry tra Tel Aviv, Gerusalemme, Amman, Il Cairo e Gaza ha rilanciato il “processo di pace” attorno alla parola-chiave dei due Stati. Kerry ha fretta, perché lui stesso valuta che “la finestra per la soluzione dei due Stati si stia chiudendo” e che i tempi per afferrarla siano molto stretti, un anno e mezzo o due al massimo.

Un Medio Oriente senza speranze?
C’è dunque un senso di urgenza nelle visite del Segretario di Stato nella regione (quattro da febbraio), e negli incontri di questi giorni. In parte come reazione istintiva, prima ancora che ragionata e politica, i colloqui vengono accolti con un certo scetticismo mediatico: è l’effetto perverso di un mondo “aperto” e frettoloso che disconosce la diplomazia paziente e riservata necessaria a risolvere certi conflitti. E si sposa bene, paradossalmente, con chi ritiene che quelli mediorientali siano conflitti irrisolvibili, ovvero con i fondamentalismi sul terreno. Il corto circuito tra un’idea di “pivot asiatico” che prefigura uno sganciamento Usa dal Medio Oriente e i professionisti del pessimismo in Israele e negli Stati Uniti questa volta è davvero inopportuno.

Altro che “disimpegno Usa”
Ma il pivot asiatico non vuol dire certo abbandono di altre priorità. Basti leggere ciò che sostiene Richard Haass del Council on Foreign relations, tra i maggiori sostenitori di un ribilanciamento pragmatico, in cui, senza perdere di vista la priorità asiatica, gli Stati Uniti mantengano una presenza attiva nel bacino mediorientale e mediterraneo. Una presenza pragmatica e militare, supportata ora dall’azione di Kerry, che ha avuto secondo il generale israeliano Alon un effetto benefico nella collaborazione tra apparati di sicurezza nella West Bank. Si può notare che questo tipo di cooperazione è probabilmente la più significativa per creare anche un’élite e una comunità politico-strategica comune arabo-israeliana. Soltanto ampliando ed irrobustendo questi elementi di unità è possibile affrontare il capitolo dei due Stati vicini non come il riconoscimento fallimentare di una divisione irreconciliabile, ma come articolazione di un concetto unitario, di tipo vagamente “federale”.

Scettici pentiti e neo-interventisti
Phillip Stephens del Financial Times e Nathan Sachs del Brookings Institute sono due ex-scettici, o scettici pentiti, che riconoscono a Kerry una buona dose di coraggio, e qualche chance realistica di farcela. La forza degli Stati Uniti e dei suoi alleati resta, in termini globali, “di gran lunga superiore a quella di qualsiasi rivale” dice Stephens. Il quale cita un recente discorso alla Ditchley Foundation di David Miliband, dove l’ex ministro degli esteri di Londra ha ripercorso gli errori commessi in Iraq ed Afghanistan, affermando però che “se l’ultimo decennio ha dimostrato che gli interventi militari occidentali possono generare caos, in Siria abbiamo visto che la sua assenza può significare disordine”. Per concludere che “the big question is not whether to intervene but how; not less foreign policy but better” (la grande questione non è se intervenire, ma come; non meno politica estera, ma migliore politica estera).

Ma il “pungolo” Usa non basta
L’occidente definito come polo globale a partire dall’alleanza anglo-americana, è la forza decisiva per forgiare gli equilibri regionali sulla base di un’agenda globale. E’ questo il punto di vista del giornale della City, immerso nella relazione atlantica ma molto attento al suo retroterra europeo continentale. Il sostegno allo sforzo di Kerry è dunque una priorità nazionale, anche sulla base di un’agenda umanitaria per contrastare pulizie etniche, terrorismo, povertà e immigrazione. Un nuovo interventismo umanitario lungo queste linee potrà trovare ascolto anche da questa parte della Manica, in tutte le parti politiche. E’ un’ipotesi che però ha due limiti intrinseci. Il primo è che nel triangolo Irak-Siria-Israele è in corso da tempo un nuovo ciclo di regolazione dei rapporti di forza militari su cui influisce ormai anche la Russia (attraverso le forniture alla Siria e all’Irak). Il secondo è che l’appoggio inglese ed europeo poco aggiunge, se i perni tradizionali dell’azione americana nel Medio Oriente allargato restano Pakistan, Arabia Saudita e Turchia. Insomma, ci vogliono nuove geometrie, un riequilibrio che bilanci gli interessi di Iran ed Israele. Bisognerà ancora una volta affidarsi all’estro diplomatico di Kerry, oppure Parigi, Berlino e soprattutto Roma sapranno essere buoni suggeritori?

Un "uomo solo al comando" per il Medio Oriente?

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