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Dove sono finiti i capitali un tempo fedeli alla Cina? In Giappone e in India. Parola di Bank of America, che nei giorni in cui volge al termine la grande fuga degli investitori dal Dragone, ha fatto il punto della situazione, per capire chi abbia infilato le mani in tasca a Pechino. L’ultimo sondaggio condotto dai gestori di fondi di Bank of America parla piuttosto chiaro.

Ebbene, l’India è stata tra le destinazioni di investimento preferite dopo il Giappone, proprio perché i fondi preferiscono evitare la Cina a causa dei timori di un declassamento strutturale della sua economia. Secondo l’indagine, il Sol Levante, con il 56% netto di investitori si è posizionato in cima alla lista dei Paesi preferiti, seguito da India e Taiwan (19% ciascuno), mentre l’allocazione di capitali nella Cina è rimasta pressoché inesistente.

“Il mercato azionario cinese”, ha scritto Bank of America, “non è riuscito a ottenere la fiducia necessaria, toccando nuovi minimi. Ora gli investitori si aspettano un avvitamento dell’economia del Dragone e un declassamento strutturale, data la loro convinzione che la propensione delle famiglie cinesi a preservare la liquidità piuttosto che a spendere sia nulla”.

I segnali, però, c’erano già da inizio anno. Gli scorsi mesi, complici gli atavici problemi dell’economia, hanno visto un progressivo disimpegno degli investitori esteri dal mercato cinesi, con deflussi arrivati al 90% delle azioni detenute presso le piazze di Pechino, Shenzhen e Shanghai. Un trend proseguito anche in questo primo scampolo di 2024.

Ora, se è vero come pare che le azioni nipponiche sono ai massimi da 34 anni, un motivo ci deve essere. Non solo la politica monetaria ultra-morbida messa a terra dalla Bank of Japan. Ma anche l’afflusso di capitali dalla Cina. “Un gran numero di investitori sono fondi istituzionali esteri e si sono riallocati, o lo stanno facendo, da Hong Kong al Giappone”, ha affermato Redmond Wong, stratega di mercato presso Saxo Capital Markets, interpellato da Bloomberg. Il problema è che “a Shanghai e Shenzhen c’è troppa influenza da parte regolatori cinesi, dalle restrizioni su qualsiasi cosa, dalle vendite allo scoperto o alle offerte pubbliche iniziali, agli avvertimenti verbali e all’intervento diretto dei fondi statali da parte del partito”. E lo scippo è servito.

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