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«Lo Stato non può […] abdicare al compito, ineludibile, di presidiare le proprie frontiere: le regole stabilite in funzione d’un ordinato flusso migratorio e di un’adeguata accoglienza vanno dunque rispettate, e non eluse […], essendo poste a difesa della collettività nazionale e, insieme, a tutela di coloro che le hanno osservate e che potrebbero ricevere danno dalla tolleranza di situazioni illegali» (Corte Cost. sent. n. 353/1997).

Sgombriamo subito il campo da equivoci. La recente tragedia di Lampedusa e poco fa quella al largo di La Valletta, sono eventi  tremendi, che devono farci riflettere una volta di più e farci tornare con la memoria alle vicende dei nostri avi che, come i profughi che oggi attraversano il Mediterraneo, affrontarono pericoli analoghi guidati dallo stesso sogno: migliorare la propria condizione di vita.

Un simile obiettivo, quando quello che lasci è la disperazione più nera, probabilmente non ha prezzo.

Ma la tragedia, anche la più immane, non deve portare a legiferare sull’onda dell’emotività. Una legge è faccenda complessa, tesa com’è a regolare la nostra convivenza in maniera astratta e avulsa dalla realtà, per un avvenire indeterminato.

La tragedia passa. Ne resta il ricordo, indelebile, certo. Ne deve restare il senso di monito. Ma passa. La legge è fatta invece per rimanere e per contemperare, per l’avvenire, esigenze ed interessi differenti.

Non credo che il voto con cui i senatori grillini hanno determinato in Commissione Giustizia l’abrogazione del reato di immigrazione clandestina sia stato dettato dall’emotività (la deliberazione dovrà comunque essere sottoposta al vaglio delle due Camere prima di diventare legge). Credo che sull’onda dell’emotività sia invece arrivato l’appoggio dato da Scelta Civica e dallo stesso Governo.

Nel 2009, al momento della presentazione del disegno di legge che poi avrebbe introdotto questa figura di reato (la L.94/2009 in materia di sicurezza pubblica), alcuni autorevoli costituzionalisti dell’associazione Libertà e Giustizia, fra cui Valerio Onida, Gustavo Zagrebelsky e Stefano Rodotà, presentarono un appello volto a sensibilizzare l’opinione pubblica sui profili di incostituzionalità di tale nuova fattispecie. Fra l’altro, questo appello asseriva che “l’ingresso o la presenza illegale del singolo straniero non rappresentano, di per sé, fatti lesivi di beni meritevoli di tutela penale, ma sono l’espressione di una condizione individuale, la condizione di migrante”.

La Corte Costituzionale smentì tale tesi con la sentenza n. 250/2010, sostenendo che nel reato di immigrazione clandestina “oggetto dell’incriminazione non è un «modo di essere» della persona, ma uno specifico comportamento, trasgressivo di norme vigenti. Tale è, in specie, quello descritto dalle locuzioni alternative «fare ingresso» e «trattenersi» nel territorio dello Stato, in violazione delle disposizioni del testo unico sull’immigrazione o della disciplina in tema di soggiorni di breve durata per visite, affari, turismo e studio”.

La Corte Costituzionale ricordò anche quello che è il bene giuridico in concreto tutelato. ”Il bene giuridico protetto dalla norma incriminatrice è agevolmente identificabile nell’interesse dello Stato al controllo e alla gestione dei flussi migratori, secondo un determinato assetto normativo: interesse la cui assunzione ad oggetto di tutela penale non può considerarsi irrazionale ed arbitraria (…) L’ordinata gestione dei flussi migratori si presenta, in specie, come un bene giuridico “strumentale”, attraverso la cui salvaguardia il legislatore attua una protezione in forma avanzata del complesso di beni pubblici “finali”, di sicuro rilievo costituzionale, suscettibili di essere compromessi da fenomeni di immigrazione incontrollata. (…) È incontestabile, in effetti, che il potere di disciplinare l’immigrazione rappresenti un profilo essenziale della sovranità dello Stato, in quanto espressione del controllo del territorio. Come questa Corte ha avuto modo di rimarcare, «lo Stato non può […] abdicare al compito, ineludibile, di presidiare le proprie frontiere: le regole stabilite in funzione d’un ordinato flusso migratorio e di un’adeguata accoglienza vanno dunque rispettate, e non eluse […], essendo poste a difesa della collettività nazionale e, insieme, a tutela di coloro che le hanno osservate e che potrebbero ricevere danno dalla tolleranza di situazioni illegali» (sent. n. 353 del 1997). La regolamentazione dell’ingresso e del soggiorno degli stranieri nel territorio dello Stato è, difatti, «collegata alla ponderazione di svariati interessi pubblici, quali, ad esempio, la sicurezza e la sanità pubblica, l’ordine pubblico, i vincoli di carattere internazionale e la politica nazionale in materia di immigrazione» (sentenze n. 148 del 2008, n. 206 del 2006 e n. 62 del 1994): vincoli e politica che, a loro volta, rappresentano il frutto di valutazioni afferenti alla “sostenibilità” socio-economica del fenomeno”.

Potremmo discutere a lungo se abbia ancora senso reprimere con una sanzione penale una simile condotta (si tratta, in particolare, di quella forma di reati considerati più lievi e chiamati contravvenzioni) o attrarla invece nell’alveo delle sanzioni amministrative. Dovremmo discutere a lungo su come migliorare le condizioni di accoglienza ed in generale su come rivedere il meccanismo di controllo dei flussi che scaturisce dalla Bossi-Fini e dalla L. 94/2010.

Quello che non possiamo permetterci di fare è deliberare sull’onda dell’emotività, magari scordandoci quali siano i beni giuridici concretamente in gioco.
Non possiamo permettercelo non solo per noi, ma anche per tutti coloro che, legittimamente, si recano nel nostro Paese in cerca davvero di migliori condizioni di vita.

Per tutte tali ragioni, un rigido controllo dei flussi è condizione imprescindibile del benessere di una Nazione e di tutti coloro che aspirano ad abitarvi.

Immigrazione clandestina: le ragioni di una norma

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