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Antonio Teti, esperto di sicurezza informatica e professore di Cyber Intelligence, Cyber Security, IT Governance e Big Data all’Università Gabriele d’Annunzio di Chieti-Pescara, ne è convinto: l’attacco del 7 ottobre da parte di Hamas nel Sud di Israele non è avvenuto a causa delle mancanze dell’intelligence israeliana bensì alla situazione politica nel Paese attaccato.

Che cos’è successo nell’intelligence israeliana?

Il successo dell’operazione condotta dal noto gruppo terroristico palestinese non è da attribuire alle agenzie di intelligence israeliane. Alcuni pseudo-esperti in materia avevano velocemente condannato di inefficienze e incapacità i servizi segreti israeliani, ventilando addirittura alcune ipotesi relative all’abbandono di tradizionali metodologie di raccolta di informazioni, come la human intelligence. Nulla di più falso. Mossad, Shin Bet e Aman sono addestrate a condurre azioni con dispositivi e metodi integrati, sperimentati in decenni di attività sul campo. Naturalmente, i servizi israeliani non hanno affatto abbandonato la human intelligence. Al contrario, il loro modello prevede che il lavoro delle Agenzie sia supportato anche dalla cosiddetta “intelligence collettiva”, ovvero prodotta mediante la collaborazione della popolazione. È un concetto che si basa sull’utilizzo del singolo cittadino quale potenziale fonte di informazioni e che può consentire di potenziare la sicurezza nazionale. Ovviamente c’è una motivazione psicologica dietro a tutto questo: secoli di soprusi e angherie che hanno spinto i figli d’Israele a proteggersi.

E allora che cos’è accaduto?

La verità è che il governo di Benjamin Netanyahu ha sottostimato il problema di Gaza e degli insediamenti israeliani, ignorando le avvisaglie dell’intelligence. La notizia dei giorni scorsi rivelata dal programma d’inchiesta giornalistica Uvda su Canale 12, ha confermato che l’intelligence israeliana disponeva già nel 2022 di tutte le informazioni circa i piani di Hamas per un attacco senza precedenti. Un atteggiamento che ricorda errori tristemente commessi in passato. Identica supponenza aveva portato Tel Aviv, nel 1973, a ritenersi imbattibile e a minimizzare le agitazioni di Egitto e Siria, con esiti disastrosi.

Che cosa non ha funzionato tra intelligence e politica?

Le ragioni sono molteplici e vanno ricercate nella situazione politica del Paese. Israele è una società in crisi perché la sua politica è in crisi. Gli ultimi anni sono stati caratterizzati da ripetute elezioni e da una sorta di caos politico che ha condotto alla costituzione di un governo radicale pilotato da Netanyahu, che ha creato forti divisioni e dissidi nel Paese. Questa scenario politico ha prodotto la convinzione nella popolazione che ci possa essere un punto di incontro, e men che meno di collaborazione, tra le diverse forze politiche in campo. Alcune fazioni del governo, compresi alcuni ministri, si ritengono in guerra con altre parti dello Stato, in particolare con la magistratura. La minaccia dell’estate scorsa di oltre 4.000 riservisti di abbandonare l’addestramento militare come forma di protesta sulla riforma della giustizia portata avanti dal governo ne è un esempio. Così come risulta evidente, da tempo, la riluttanza dei politici israeliani di alto livello ad ascoltare gli avvertimenti dell’intelligence.

Che cosa accadrà ora in Israele nel comparto?

Assolutamente nulla. Gli apparati di intelligence israeliani funzionano bene e continueranno svolgere il proprio lavoro con la tradizionale efficienza ed efficacia nel conseguimento degli obiettivi prefissati. Sono annoverabili tra i migliori al mondo e continueranno a esserlo nel futuro.

Considerando il recente attentato a Kerman, in Iran, rivendicato dallo Stato Islamico, come influirà sulle dinamiche regionali e sulla sicurezza internazionale?

La responsabilità dell’attentato, come rivendicato su Telegram, sarebbe da attribuirsi allo Stato Islamico. L’Iran, al contrario, continua comunque a sostenere che dietro ai terroristi si nascondano gli americani e gli israeliani. Non è un’ipotesi da escludere se consideriamo che le cellule terroristiche di fondamentalisti sunniti o separatisti di etnie minoritarie possono effettivamente essere anche utilizzate da Washington e Tel Aviv per stremare la Repubblica islamica. Secondo una recente affermazione di Esmail Qani, il successore di Qassem Soleimani alla guida della Forza Qods dei Pasdaran, gli attacchi di Kerman sarebbero stati condotti da “agenti del regime sionista e degli Stati Uniti”. Ciò che risulta certo è il crescente livello di pericolosità sul piano della degenerazione del conflitto in corso tra Hamas e Israele nella Striscia di Gaza. L’Iran potrebbe condurre un’azione di allargamento del conflitto, coinvolgendo i suoi alleati che vanno dalle milizie Houthi nello Yemen agli Hezbollah in Libano, e fino alle milizie scite in Iraq e Siria. Una strategia che potrebbe produrre una estensione del conflitto dalle conseguenze imprevedibili. Alle temibili evoluzioni dello scacchiere mediorientale potrebbero aggiungersi ulteriori scenari geopolitici “ad alto rischio”.

Quali?

Per esempio, non sono da sottovalutare le rinnovate minacce di Pechino sull’annessione di Taiwan alla Cina, come asserito da Xi Jinping nel suo discorso di fine anno, confermando che la Cina “sarà sicuramente riunificata”. Così come non va trascurato il recentissimo attivismo della Corea del Nord che nei giorni scorsi ha sparato numerosi colpi di artiglieria sull’isola sudcoreana di Yeonpyeong, provocando la reazione di Seul, che ha a sua volta ha iniziato a sparare proiettili di artiglieria in direzione contraria. Insomma, potremmo trovarci realmente in una condizione storica di “tempesta perfetta” a livello mondiale.

La politica, non gli 007. Gli errori di Israele spiegati da Teti

“Il governo Netanyahu ha sottostimato il problema di Gaza e degli insediamenti israeliani, ignorando le avvisaglie dell’intelligence”. Conversazione con Antonio Teti, professore di Cyber Security, IT Governance e Big Data all’Università di Chieti

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