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Le più grandi società di telecomunicazioni europee tornano a pesare sul dibattito dei finanziamenti infrastrutturali, a gran voce. Lunedì, con una lettera aperta indirizzata alla Commissione e al Parlamento europei, venti amministratori delegati di altrettante telco del Vecchio continente hanno rinnovato la richiesta di ricevere (per legge) un “contributo equo” da parte delle aziende tecnologiche che più si avvalgono delle loro infrastrutture di trasmissione dati – che poi sarebbero le solite Big Tech statunitensi.

Tra i firmatari ci sono i Ceo di grandi nomi come l’inglese BT, Orange (già France Telecom), Deutsche Telekom, la spagnola Telefónica, Vodafone e anche Telecom Italia. La loro tesi fondamentale è che le aziende che “traggono i maggiori benefici” dalle infrastrutture di telecomunicazione, il cui contenuto contribuisce alla crescita del traffico internet, dovrebbero aiutare a sviluppare le infrastrutture. Specie se considerati i costi (circa 200 miliardi di euro secondo l’ultimo studio della Commissione) che servirebbero per raggiungere l’obiettivo di garantire a ogni cittadino europeo una connessione a banda ultralarga, basata su fibra e 5G, entro il 2030.

“Gli investimenti futuri sono sotto pressione e per garantirli è necessaria un’azione normativa”, hanno scritto i Ceo. “Un contributo equo e proporzionato da parte dei maggiori generatori di traffico ai costi delle infrastrutture di rete dovrebbe costituire la base di un nuovo approccio”. La lobby delle telecomunicazioni europee Etno era stata più specifica nel rapporto del 2022 sui cui si basa la campagna delle telco, evidenziando che sei aziende statunitensi –  Amazon, Apple, Google, Meta, Microsoft e Netflix – occupano la metà della banda disponibile a livello globale. La lettera dei Ceo aggiunge che queste sono le principali responsabili della crescita del traffico di 20-30% ogni anno.

La tesi delle telco è stata sostenuta dalla Commissione, che a inizio anno aveva avviato un periodo di consultazione e che nel presentare un altro studio lo scorso luglio ha adottato la formulazione di Etno, presentando quei miliardi mancanti al raggiungimento degli obiettivi come “gap negli investimenti”. A giugno il Parlamento Ue ha chiesto alla Commissione “l’istituzione di un quadro politico” in cui i suddetti grandi generatori di traffico “contribuiscano equamente al finanziamento adeguato delle reti di telecomunicazione” senza però pregiudicare il principio della neutralità della rete.

Dalle parti di Bruxelles è Thierry Breton (ex ad di Orange) che traina lo sforzo legislativo. A settembre, in un post su LinkedIn, il commissario al Mercato interno europeo ha scritto che è necessario uno sforzo maggiore per gestire l’aumento del traffico dati e che sta lavorando su un “Telecoms Act” – che ha descritto come un “nuovo approccio industriale per sfruttare la forza del mercato unico” nel settore delle telecomunicazioni, “il fattore abilitante di tutti i servizi, mercati e tecnologie digitali”.

Questo atto dovrebbe arrivare prima di fine anno, ha assicurato Breton. Ma va registrata la cautela della Commissione, che avrebbe dovuto rivelare i risultati della consultazione europea a giugno ma continua a rimandare quel momento. E del resto la maggior parte delle capitali europee ha fatto appello alla cautela negli scorsi mesi. Ad agosto una delle voci più forti si è levata da Roma, quando il sottosegretario con delega all’Innovazione Alessio Butti ha scritto a Breton definendo la proposta “prematura” e segnalando il rischio che una “tassa su internet” crei “un circolo vizioso di prezzi più alti, domanda più bassa, meno scelta e meno utilizzo a scapito di tutti operatori del mercato e consumatori”.

Nella cautela espressa da Butti e dalle altre capitali europee risuonano le preoccupazioni dell’altro lato della diatriba, quello delle Big Tech. Secondo loro il costo finale di una “internet tax” – e dei balzelli su chi offre contenuti e servizi digitali – andrebbero a pesare sui consumatori e la concorrenza. Senza contare che anche le Big Tech contribuiscono all’infrastruttura dei dati costruendo cavi sottomarini e data centers, che è l’offerta di contenuti a creare domanda di dati da parte degli utenti e non l’opposto, e che una misura del genere infrangerebbe il principio della neutralità della rete menzionato dal Parlamento, visto che le telco finirebbero per controllare e tassare entrambi i lati della catena di trasmissione dei dati, secondo quanto ripetuto a più riprese dalla lobby delle Big tech in Ue, Ccia.

Chi è andato al nocciolo del problema ha esaminato i dati della Commissione sul cosiddetto “gap di investimenti” – che Butti e altri non hanno riscontrato e che secondo il Disruptive Competition Project è un modo alquanto fantasioso di descrivere la quantità di denaro necessaria per raggiungere gli obiettivi europei. Non solo quei 200 miliardi “mancanti” sono 100 in meno rispetto a quanto sostenuto da Etno, scrive il centro studi, ma sulla carta gli investimenti annuale dichiarati delle telco europee (50-60 miliardi di euro, senza considerare le sovvenzioni) sarebbero sufficienti per raggiungere l’obiettivo europeo al 2030 entro il 2027.

L’opposizione delle capitali e la reticenza della Commissione nel pubblicare i risultati della consultazione suggeriscono che la posizione delle Big Tech potrebbe aver fatto breccia nelle posizioni dei regolatori. Con l’avvicinarsi delle elezioni europee a giugno 2024 si riduce anche lo spazio politico per una mossa così importante – e delicata – come l’imposizione di una nuova tassa sul flusso di dati. Appuntamento alla riunione informale dei ministri delle telecomunicazioni, in programma per il 23-24 ottobre a Leòn, in Spagna, per vedere se Breton e i suoi porteranno sul tavolo una proposta conclusiva.

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