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Come Alessandro Magno che tagliò con la spada il proverbiale nodo gordiano divenendo imperatore dell’Asia minore, allo stesso modo è servita la “spada” di Donald Trump per sciogliere l’intricata matassa della guerra tra Israele e Hamas e porre fine a ostilità e distruzioni a Gaza esattamente dopo due anni, in concomitanza con la fine dello Sukkot e l’anniversario del più devastante attentato terroristico di Hamas in territorio israeliano.

Non ancora una pace, anche perché siamo solo all’inizio di un percorso che si preannuncia molto lungo e pieno di ostacoli; possiamo parlare piuttosto di una “tregua imposta” dagli Stati Uniti a Israele, dettata non solo da ragioni umanitarie ma anche dall’ambizione personale del Presidente Usa (che non è stata sufficiente, almeno per quest’anno, a fargli vincere il Nobel per la Pace) e dall’agenda politica interna della Casa Bianca. Comunque, il tentativo di forzare i tempi da parte dell’amministrazione repubblicana sembra andato a buon fine e, dopo la firma ufficiale degli accordi che avverrà domani (speriamo a scanso di sorprese) a Sharm el-Sheikh, ci si potrà avviare verso la seconda tappa di un negoziato che porterà auspicabilmente come approdo finale alla soluzione di “due popoli e due Stati”.

Come all’indomani dell’analogo attentato per le conseguenze emotive e militari delle Torri Gemelle, il percorso sarà accidentato e con alterni successi, ma altre alternative si sono per ora esaurite in attesa di una grande e per ora utopistica Conferenza Internazionale di Pace (Cscm come la storica Csce per la sicurezza e la cooperazione in Europa) per il cosidetto Mena (Medio Oriente e Nord Africa)

Dal “peccato originale” degli accordi Sykes-Picot, che tracciarono con il righello i confini nella regione, continuando al 1946, anno in cui ci furono i primi attacchi sionisti (considerati allora terroristici!) contro i colonizzatori inglesi, e proseguendo per la prima fase del conflitto israelo-palestinese degli anni successivi, sono state moltissime le fasi che hanno caratterizzato questa guerra apparentemente infinita, quasi di biblica memoria, per arrivare oggi ad un momento davvero promettente, che forse non si era più ripetuto dalla firma degli accordi di Oslo, che erano stati suggellati dalla storica stretta di mano fra Rabin e Arafat, poi vanificati in seguito all’uccisione del leader israeliano da parte di un estremista ebreo.

Oggi sembra finalmente aprirsi una situazione nuova: Hamas è stata sconfitta politicamente e i suoi vertici sono stati decapitati, anche se il prezzo per raggiungere tale risultato è stato scandalosamente alto con quasi 70mila palestinesi morti e la distruzione quasi completa di Gaza. Dall’altra parte, il governo israeliano è stato invece costretto – obtorto collo – ad accettare di riprendere il processo verso la nascita di uno Stato di Palestina. Anche perché, con le elezioni che in Israele si dovranno svolgere il prossimo anno e il malcontento generale verso l’attuale esecutivo, sembra molto difficile per Netanyahu garantirsi una nuova sopravvivenza politica.

Insomma, tornare ancora indietro non è possibile ma, allo stesso tempo, ulteriori passi avanti non sono scontati. Si potrà parlare di vero successo se e quando inizieranno ad affluire dalle monarchie del Golfo, dagli Usa e dall’Europa gli enormi capitali necessari per la ricostruzione di Gaza, non per farne un enorme “riviera” per ricchi, ma piuttosto una sorta di “nuova Beirut” sulla base del modello proposto da Tony Blair, nel quale i cittadini gazawi dovrebbero mantenere pieni diritti sulle proprie abitazioni. Speriamo anche che l’Italia possa giocare un ruolo attivo nel far sì che questo processo vada avanti mantenendo la barra dritta, non solo coordinando gli aiuti umanitari ed inviando carabinieri e soldati sminatori, ma anche indirizzando politicamente il dialogo fra i vari attori in gioco, favorendo ad esempio una piena applicazione degli accordi di Abramo portando a bordo anche un attore fondamentale come l’Arabia Saudita. È comunque un successo della premier Giorgia Meloni e del ministro degli Esteri Antonio Tajani il fatto che il nostro Paese sarà presente domani in Egitto.

E, tuttavia, sullo sfondo resta un altro “nodo gordiano”, ancora più intricato di quello palestinese, che purtroppo Trump nonostante le sue promesse dall’Alaska non è ancora riuscito a tagliare: quello dell’Ucraina, nei confronti della quale oggi sembra essere diminuito il coinvolgimento militare ed empatico.

Confidiamo però che presto l’attenzione della Casa Bianca tornerà a rivolgersi anche verso Kyiv, attorno alla quale si contrappongono però due visioni antitetiche del mondo: da una parte la vocazione imperialista della Russia, dall’altra la spinta europea per l’allargamento a Est di un’area di sviluppo e di pace protetta da una Nato rinata nelle sue priorita e ragion d’essere.

L’auspicio è che anche in Ucraina, così come in tutte le altre regioni del mondo percorse da guerre o dove i diritti umani vengono calpestati (dal Sud Sudan all’Afghanistan solo per fare due esempi), si possano fare dei passi avanti, senza il bisogno di doversi attestare medaglie sul petto sulla base del numero di conflitti risolti e con il coinvolgimento concreto e diretto dell’Unione Europea.

Il nodo gordiano di Gaza è sciolto, che succede ora? Gli scenari dell'amb. Castellaneta

Il tentativo di forzare i tempi da parte dell’amministrazione repubblicana sembra andato a buon fine e, dopo la firma ufficiale degli accordi che avverrà domani a Sharm el-Sheikh, ci si potrà avviare verso la seconda tappa di un negoziato che porterà auspicabilmente come approdo finale alla soluzione di “due popoli e due Stati”. La riflessione dell’ambasciatore Giovanni Castellaneta

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