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L’Italia è sempre meno competitiva. L’Indice di competitività regionale 2013 diffuso ieri dalla Commissione europea evidenzia come le Regioni italiane siano fuori dalla top 100 delle più competitive d’Europa, con la Lombardia che perde terreno e scivola in 128esima posizione. Un dato che negativo, che stimola riflessioni e accende un ulteriore allarme rosso sulla già preoccupante situazione economica della Penisola.
In una conversazione con Formiche.net, Domenico Lombardi, Direttore del Global Economy Department presso il Centre for International Governance Innovation (CIGI) in Canada, spiega perché l’Italia, in mancanza di riforme, è destinata a un lento ma inesorabile declino.

Lombardi, l’Italia non sembra più capace di fronteggiare come un tempo i processi economici. È la politica che condiziona l’economia o l’economia che condiziona la politica?
Non vi è dubbio che politica ed economia sono intimamente interconnesse ma è la politica che, alla fine, deve prevalere sull’economia, come ha detto chiaramente il ministro Ministro per gli affari regionali e le autonomie Graziano Delrio in un panel che ho introdotto al Meeting di Rimini. Del resto, nella tradizione aristotelica, la politica è la più importante delle arti che si serve delle “scienze pratiche”, come l’economia, per “stabilire che cosa bisogna fare e che cosa evitare”. Oggi, invece, l’economia domina la politica e che la crisi ha ulteriormente accentuato la natura inversa di questo rapporto.

Ma perché gli investitori esteri disertano l’Italia?
I mercati moderni di natura capitalistica non nascono da soli ma si sviluppano grazie a processi di natura politica. Lo Stato crea i mercati istituendo e tutelando i diritti di proprietà e assicurando livelli sufficienti di concorrenza. In tal modo, li regola e vi partecipa pure, contribuendo a formare la domanda e l’offerta aggregate tramite la spesa pubblica e il sistema impositivo, influenzando l’efficienza nell’allocazione delle risorse.
Dati alla mano, la capacità di tutelare i diritti di proprietà e, quindi, gli investimenti nel nostro Paese è bassissima. Secondo la Banca mondiale, l’Italia è 160esima su 185 Paesi. Nel complesso, l’attrattività degli investimenti in Italia è di gran lunga inferiore rispetto alle altre economie europee ed avanzate, collocandosi l’Italia al 73esimo. Non è un caso che gli investitori esteri da tempo disertano l’Italia. È chiaro che la politica non è stata in grado di svolgere il suo ruolo guida sull’economia e quest’ultima si è impadronita della politica.

In che senso?
L’economia definisce il perimetro di autonomia nell’ambito del quale la politica formula – e finanzia – le politiche. Se un Paese ha accesso al mercato finanziario a costi sostenibili, la politica è più efficace nel raggiungere i suoi obiettivi. All’estremo opposto, quando si perde l’accesso al mercato, vi è l’abdicazione della politica simboleggiata dalla Troika che assume, di fatto e sia pure pro tempore, la sovranità di un Paese, come è accaduto in Grecia, Irlanda e Portogallo. Come ha ricordato Corrado Passera nel suo intervento al Meeting, l’Italia si è pericolosamente avvicinata a questa devastante prospettiva nell’autunno del 2011. Non escludo, tuttavia, che ciò possa accadere di nuovo.

Che effetto ha l’euro nel condizionare questa relazione?
L’euro ha un impatto importantissimo nel qualificare questa relazione per i Paesi che lo adottano. Da un lato, comporta la perdita del controllo della politica monetaria e del cambio, e, in parte, di quella fiscale. Dall’altro, tuttavia, lascia agli Stati membri il controllo sulle politiche strutturali e dei redditi.

Poi è arrivata la crisi…
Esattamente. Con la complicazione che la crisi europea rischia di cristallizzare la distinzione fra economie in surplus ed economie in deficit. I costi e i benefici dell’integrazione tenderanno a distribuirsi in modo asimmetrico tra questi due gruppi. Anche il nesso tra sovranità e stabilità avrà implicazioni diverse. Per i primi, l’integrazione comporterà un aumento della sovranità e della stabilità allo stesso tempo, concorrendo a definire regole, tempi e modi delle successive tappe dell’integrazione. Per i secondi, invece, si accrescerà il trade-off fra sovranità e stabilità dovendo essi scegliere tra maggiore stabilita’ in cambio di minore sovranità. L’Italia, oggi, pur non essendo tecnicamente in deficit, è più vicina al secondo gruppo di quanto lo sia al primo.

Come si è arrivati a questo punto?
Dalla fine degli anni Novanta, mentre la Germania ha profittato dell’euro consolidando la sua posizione competitiva nell’Eurozona e nel mercato globale, l’Italia è progressivamente arretrata perdendo competitività verso il partner tedesco nella misura di un 20-30 percento. Anche su questo la politica ha fallito: da un lato l’Italia aderiva alla moneta unica compiacendosi del suo ruolo di membro fondatore dell’Eurozona, dall’altro nulla faceva per rendere sostenibile la partecipazione a un tale ambizioso progetto.

Come riequilibrare queste asimmetrie per invertire il processo di austerity europea, che come lei evidenzia, avvantaggia alcuni Paesi che quindi difficilmente rinunceranno all’attuale sistema? Rivedere la nostra adesione alla moneta unica, almeno nelle forme attuali, sarebbe una soluzione?
Ora abbiamo di fronte due strade: attuare sistematicamente un’ampia agenda riformista così da rendere la nostra aderenza alla moneta unica compatibile con la vocazione europeista del Paese e sostenibile nel tempo. La credibilità che conseguiremmo lungo questa strada, renderebbe più agevole la rinegoziazione dei trattati e politiche europei in funzione del nostro interesse nazionale.
In alternativa, un protratto periodo di declino economico, politico e sociale che alimenterebbe sentimenti antieuropeistici probabilmente irreversibili.

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