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Che dire di Margaret Thatcher, sulla quale è stato detto tutto e il suo contrario, persino che si era ridotta a una barbona semidemente, come appare nel film interpretato dal Meryl Streep?

Forse l’unica cosa rimasta in ombra è quella che, al contrario, resta la sua vera, grande eredità: la leadership e il primato della politica. Maggie ha lasciato una lezione di metodo, questa sì non caduca.

La donna che ha diviso una nazione, come ha scritto il Daily Mirror (anzi, bisognerebbe dire l’intero Occidente) solo nell’ora della sua morte è riuscita a fare consenso. Con l’eccezione del grande sconfitto: il sindacato dei minatori, infatti, non si è unito al coro e, con l’irriverenza della sincerità, ha addirittura festeggiato. Buona parte di queste lodi sono frutto di un riflesso condizionato dalla retorica e dall’arte del panegirico nella quale sono ben addestrati i media, a cominciare da quelli italiani.

L’Occidente che oggi la celebra ne ha rinnegato ampiamente le ricette. Non perché irriconoscente, ma perché si trova a fare i conti con la fine del ciclo aperto dal thatcherismo. Non è vero, tesi popolare a sinistra, che la grande crisi sia conseguenza della “controrivoluzione conservatrice”, è vero invece che chiude la fase storica aperta da quella svolta e segnata da una rivoluzione non solo politica ed economica, ma antropologica, perché l’immenso merito della globalizzazione è aver fatto uscire dalla fame miliardi di uomini e donne, riportando sull’arena della storia interi continenti. Grazie al mercato, certo. Un po’ meno grazie alla democrazia liberale, anche se ha fatto immensi passi avanti con il crollo del comunismo.

La Thatcher oggi viene imitata in Asia, non altrettanto in Sud America e in Africa, anche se nessuno che voglia uscire dal sottosviluppo può più fare a meno di lei. Tuttavia, il ruolo dello Stato è riemerso prepotente nell’ultimo decennio, ancor prima del crac del 2008. Se prendiamo le prime grandi multinazionali, vediamo che la maggior parte di esse è segnata dalla mano pubblica che la “Lady di ferro” voleva tagliare. Ciò riguarda la Cina, il Brasile o altri Brics, ma anche grandi gruppi occidentali (si pensi alla Volkswagen, alla Eads, secondo produttore aeronautico mondiale e molte altri). Grandi banche inglesi, alfa e omega del big bang finanziario lanciato dalla Thatcher, sono state nazionalizzate, quelle americane sono state salvate temporaneamente dal governo quelle tedesche e francesi sono di fatto in mano allo stato.

L’Occidente nel suo insieme ha rinnegato la rivoluzione liberista per salvare il sistema che il liberismo ha creato. I liberisti lo denunciano e sostengono che sta proprio qui il seme della prossima, distruttiva, recessione. Hanno in gran parte ragione. Tuttavia in questa fase non sono stati in grado di esprimere soluzioni nuove, né sul piano teorico né (anzi tanto meno) sul piano politico.

Resta il metodo. George Shultz, l’economista americano segretario di Stato con Ronald Reagan, colui che per primo ha costruito il ponte tra i due leader della rivoluzione conservatrice, ha scritto che Lady Thatcher aveva una grande dote: si assumeva fino in fondo la responsabilità delle proprie scelte, anche delle loro conseguenze negative (e furono pesanti nei primi tre anni del suo mandato), perché aveva un obiettivo di lungo periodo ed era determinata a perseguirlo fino in fondo.

Testardaggine? No, coerenza, visto che quell’obiettivo non nasceva da pura brama di potere (che c’era, eccome), ma dalla fiducia nelle proprie convinzioni, in una ideologia ferma e ben fondata, basata sulla capacità di leggere la trama della storia. Il comunismo era già fallito, fin dagli anni ’70 le aspettative di vita della popolazione russa erano crollate, segno inequivocabile di come era ridotto il Paese. Ma nessuno ci credeva e soprattutto nessuno aveva il coraggio di dirlo apertamente e costruirci sopra una strategia. Si pensi che la Cia sosteneva ancora che l’Unione sovietica avrebbe superato in potenza militar-industriale gli Stati Uniti.

Ecco, questa è l’eredità che Margaret Thatcher lascia a chiunque voglia far politica. Perché lei non era una economista, né una filosofa, non era nemmeno membro della oligarchia tecnocratica della quale oggi tanto si parla. Era entrata nell’élite con una selezione dal basso, una selezione politica. La Iron Lady è un monumento alla politica, al suo primato, alla sua sostanza. Questo andrebbe detto a voce alta oggi che prevale l’ideologia della casta. Ma quale società liquida, la sua era di carbone e d’acciaio. Ma quale politica debole, la sua era forte al punto da guidare il proprio paese fuori dal declino che tutti i soloni consideravano inevitabile. E’ quel che le ha riconosciuto Tony Blair nel suo breve, ma intenso epitaffio. Peccato che in Italia proprio questo aspetto sia rimasto nell’ombra. O forse non è un caso.

Stefano Cingolani

Margaret Thatcher? Un monumento al primato della politica

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