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L’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti prende vita. Attenzione perché é un disegno di legge, e quindi dovrà prima passare per il Parlamento. Quando sarà approvato (se lo sarà) l’entrata in vigore sarà graduale. A pieno regime andrebbe solo nel 2016 (qui il comunicato stampa del Consiglio dei Ministri, qui il breve commento della redazione di Formiche).

Comunque, al di la del fatto che tutto questo si realizzi o meno, il DDL è un segnale importante di cambiamento. Lo è per tanti interlocutori. I cittadini anzitutto, che potranno decidere se e come sostenere economicamente la politica. I partiti ovviamente, che affronteranno una profonda riorganizzazione di ruoli e strutture. Ultime, si fa per dire, le imprese.

La domanda è: in un sistema senza finanziamento pubblico quanto costa al lobbying la politica? Difficile da dire, in Italia soprattutto. Quello che si può fare è dare un’occhiata agli Stati Uniti. La campagna elettorale dei candidati alle presidenziali statunitensi del 2004 (quelle che hanno portato alla rielezione di Bush junior) costò circa 1 miliardo di dollari. E fu una notizia che allora fece gridare allo scandalo. Per inciso, lo scarto tra il vincitore e lo sfidante, John Kerry, non fu particolarmente significativo: ammontava all’incirca a 50 milioni di dollari in meno. Nel 2000 la sfida elettorale tra Bush junior e Al Gore, quella che avrebbe sancito il passaggio di testimone dai democratici ai repubblicani, era costata complessivamente 649 milioni di dollari. Nel 1996 Bill Clinton e lo sfidante Dole di milioni ne avevano spesi poco meno di 500. Entrambe le campagne di Obama invece hanno stabilito nuovi record di spesa.

Letteralmente una cascata di soldi, provenienti dalle fonti più disparate. Un’indagine del più noto ente no-profit americano impegnato nella ricerca sui costi della politica, il Center for Responsive Politics, nel 2006 ha censito una per una le donazioni versate a tutti i partiti statunitensi e ha provato a quantificarne l’impatto sulla scena politica nazionale. Per le sole elezioni federali, il rapporto ha calcolato una spesa media di 2,5 miliardi di dollari. Oltre la metà di questi – ha spiegato Sheila Krumholz, il direttore esecutivo del Center – provengono dai Political Action Committee. Proprio loro. I famosi “Pacs”. La prima volta che la legge è intervenuta per regolarne il funzionamento era nel 1971, oltre 40 anni fa. Il Federal Election Campaign Act disciplinò la competizione elettorale proprio con l’intento (molto blando per la verità) di contenere lo strapotere dei comitati. Il tentativo successivo del 1979 si rivelò un fiasco. Per giustificarsi gli oppositori alla legge sostennero che il sistema di finanziamento alla politica andava modernizzandosi e che l’ammodernamento avrebbe avvantaggiato le forze politiche più capaci di proporre innovazione e quindi, alla fine, tutto il Paese.

La verità è un’altra. È che già allora tutti erano consapevoli del fatto che dietro il più innocente degli acronimi si celava – e si cela tuttora – una macchina fenomenale di lobbying. Lo sapevano i politici – Ronald Reagan ci vinse due elezioni. Tutto merito del Citizens for the Republic e dell’idea delle contribuzioni in natura: biglietti aerei per l’intero staff grazie ai quali visitare i distretti elettorali durante la campagna – e lo sapevano i gruppi di pressione. Charles Orasin, il Vicepresidente della Handgun Control, la potente associazione americana favorevole all’uso delle armi da fuoco, affermò candidamente in un’intervista che è stato grazie ai Pacs che i parlamentari avevano finalmente cominciato ad ascoltare con serietà le proposte del suo gruppo.

Ma chi li versa questi soldi? I primi a contribuire sono proprio i cittadini. La spesa media nel 2008 è stata di 86 dollari a testa. Durante le elezioni del 2006 furono circa 660mila gli americani a contribuire. Alcuni inviano i soldi con un bonifico bancario, altri lo fanno di persona, in occasioni speciali. Buona parte delle donazioni poi sono raccolte durante eventi pubblici. La formula è nota. Più grande è l’evento, più famoso lo sponsor, maggiori sono le possibilità per il comitato promotore di incassare somme consistenti.

I cittadini americani, insomma, fanno la loro parte. Ma nella classifica dei supporters ai candidati il ruolo del leone spetta a loro, le grandi aziende nazionali e le multinazionali. Lo rivelava già uno studio commissionato all’università di Harvard dal House Administration Committee 8 anni dopo l’entrata in vigore della legge sulle elezioni federali. Oggi la situazione è la stessa. Se ne sono convinti anche gli americani. Più della metà di loro, il 57% per la precisione, intervistati nel 2008 da Rasmussen Reports, un’azienda specializzata in sondaggi di opinione, ha dichiarato di credere nel fatto che senza sostegno economico di imprese e gruppi di pressione non è nemmeno pensabile presentare la propria candidatura.

Perché stupirsi allora se per gestire al meglio il flusso di denaro contante proveniente dalle imprese i comitati elettorali sono gestiti da lobbisti? Li chiamano bundlers – letteralmente: gli “impacchettatori” delle pile di assegni raccolti dai donatori – e ripetono scherzando che ciascuno di loro vota due volte, una per sé e una per le migliaia di elettori che riesce a indirizzare verso un candidato. I bundlers hanno a che fare con nomi importanti. Ci sono i giganti della finanza come Goldman Sachs, quelli delle telecomunicazioni come AT&T, e le associazioni di categoria: avvocati, ma anche venditori di birra ed elettricisti. Di tanto in tanto si costituisce un nuovo comitato che raccoglie i finanziamenti di particolari gruppi di pressione. Tra gli ultimi in ordine di tempo c’è il fondo per i veterani. È stato creato nel 2011 appositamente per supportare la candidatura di Rick Perry. Sono talmente ampie le risorse finanziarie di cui dispone che la stampa americana lo ha già rinominato il “super-Pac”.

Money is speech, si dice da quelle parti. Se lo Stato non passa i soldi alla politica, la politica li deve cercare tra i privati, che acquistano molta più importanza, al punto di sovvenzionare il diritto di un candidato ad aprire bocca. Ed è per questo stesso motivo (per evitare cioè che grandi potentati economici divengano sostenitori di candidati-fantoccio, oppure per evitare che la dialettica tra neoeletti e società civile sia viziata dal sostegno ricevuto durante la campagna elettorale) che la (futura) legge sul finanziamento pubblico ai partiti deve essere seguita quanto prima da una legge sulle lobby. L’idea da difendere è semplice: imporre la trasparenza imposta per impedire, o contenere, le distorsioni tra politica e interessi.

Money is speech

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