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Oggi il Consiglio dei Ministri ha varato la normativa che prevede l’eliminazione del cosiddetto “finanziamento pubblico dei partiti. Si tratta di una scelta sacrosanta. Bisogna tuttavia capire bene che cosa significa realmente. Sì, perché la denominazione non è sempre esatta. Quando si parla di finanziamento pubblico, s’intende, il più delle volte, qualcosa di molto specifico e di storicamente determinato.

In primis, l’assicurazione che lo Stato intervenga con appositi rimborsi per coprire le spese che i soggetti politici si sobbarcano per tenere in piedi le proprie strutture organizzative. La motivazione di un costo di questo tipo, analogo a quello che finanzia i giornali, si motiva nobilmente con il valore democratico che hanno gli organismi che coordinano il consenso. Uno dei presupposti dei sistemi totalitari, infatti, è il monopartitismo. Ossia un partito-stato integrato completamente nel diritto pubblico che soppianta le istituzioni repubblicane al fine di gestire in modo esclusivo il consenso. Invece, il presupposto opposto delle democrazie pluralista è proprio l’esistenza di un concreto sistema pluripartitico. Ora, è esattamente in questa logica che è stata istituita la legge per il finanziamento statale delle associazioni politiche collettive.

La domanda vera è: ha ancora senso attualmente avere un sistema dei partiti finanziato dallo Stato?
La risposta è evidentemente no. Ma la ragione può essere interessante da considerare. In primo luogo, come s’è detto, poiché non veniamo più da un periodo di negazione della democrazia, ma da una fase in cui la sovranità popolare è diventata antipatica e tanto costosa da schiacciare le libertà personali e familiari.

Oggi, insomma, paradosso dei paradossi, è la democrazia legale che affoga la società, con i suoi oneri economici, e non l’autorità. Pertanto, risparmiare significa legittimare la partecipazione e spesso anche perfino la sopravvivenza dei cittadini e, con essi, della democrazia. Perciò, ben venga una ritirata della mano pubblica dai conti correnti degli italiani per finanziare, oltretutto, partiti che non sono più tali e associazioni che godono di un’impopolarità massima.

Questo non significa, tuttavia, che i partiti siano insignificanti, che non debbano esistere, che la democrazia possa farne a meno; e, men che meno, che non si debbano finanziare pubblicamente.
Per comprendere la soluzione apparentemente contraddittoria, può essere utile ampliare la distinzione tra pubblico e privato a quella tra visibile e invisibile.

La prima antitesi porta a identificare l’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti precisamente con la dismissione del rimborso statale. Devono essere cioè i privati cittadini a finanziare i loro movimenti, senza alcun contributo obbligatorio. Un’opzione positiva e importante oggi specialmente per alimentare la partecipazione che non c’è e combattere l’astensionismo. Se decido, infatti, di finanziare personalmente con i miei soldi un movimento politico avrò anche l’interesse a capire se ho fatto bene a farlo, quindi anche a controllare come sono gestiti i miei investimenti. Non c’è ragione, appunto, perché un imprenditore che non riceve sussidi dallo Stato per la sua impresa debba vederli dare ai partiti sopra la sua volontà, senza che poi questi facciano alcunché di utile tranne dividersi i compensi.

La seconda, quella tra visibile e invisibile, permette di capire che il finanziamento privato non è per niente qualcosa che escluda la dimensione pubblica. Anzi, è fondamentale che i contributi erogati dai singoli cittadini con il finanziamento privato siano trasparenti, certificati e controllati: in una parola che siano pubblici, sebbene non statali. Dobbiamo uscire, insomma, dalla logica novecentesca che pensa il privato come apolitico e il pubblico come statale, ossia destinato a impadronirsi con le sue formule istituzionali della legittimità democratica, per entrare in quella che suddivide le attività pubbliche e visibili da quella personali e invisibili.

In conclusione, ciascuno liberamente deve poter decidere privatamente cosa fare dei propri soldi. La partecipazione politica non è dovuta ma facoltativa. E i partiti non devono essere degli organismi parastatali, ma delle associazioni private, legalmente riconosciute, in grado di autofinanziarsi con le provvigioni trasparenti dei militanti. Se non ce la fanno a mantenersi, chiudano i battenti. Punto. Se, d’altronde, la politica non riesce a mobilitare i cittadini, non può certo essere lo Stato a garantirne il sostentamento assistenziale e il diffondersi di una cultura democratica. E’ una visione vecchia, assolutamente superata, morta e sepolta.

Nessuno in un mondo globale si sente libero se vive in uno Stato che finanzia i partiti e li rimborsa. Tutti vogliono essere liberi di finanziare apertamente le cose che amano e in cui credono. Non c’è privilegio peggiore, infatti, di quello che è creato ad arte per sostenere qualcosa di essenziale come la politica ma in modo sbagliato e inutile.

Che il Governo elimini subito l’identità tra statale e pubblico, facendo tornare sul privato la responsabilità di rendere visibile a tutti il proprio impegno, limitandosi invece a finanziare in modo statale quanto è essenziale per la nazione nel suo insieme: ad esempio la famiglia, la scuola e il lavoro. Ben inteso: non dal 2017, ma dal 2014. E con un po’ di vigore decisionale e di attributi. Ovviamente privati, pubblici e visibili.

Ballarò – Berlusconi sul finanziamento pubblico ai partiti (fonte video: Rai Tv)

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