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Le elezioni italiche del 2013 saranno ricordate negli annali per la follia non del risultato in sé, quanto delle non scelte. Mentre tutt’intorno il paese boccheggia e si posiziona pericolosamente sui binari “greci” (gli scettici confrontino i dati Istat e il rapporto deficit-pil), i tre partiti che sono giunti alla pari al traguardo finale dello spoglio elettorale sono diversi fra loro. Uno, il M5S, non intende governare: per scelta costituente, per promesse elettorali, per il suo status di diverso. Gli altri due hanno impiegato più di quaranta giorni per rendersi conto di non essere autosufficienti al Senato, e solo oggi avviano qualche timido tentativo di dialogo, con risultati tutt’altro che incoraggianti. Pochi giorni fa il politologo Alessandro Campi ha osservato che le attuali Camere potrebbero, se volessero, cambiare la legge elettorale in un mese, consentendo quindi nuove elezioni che scongiurino pareggi e ingovernabilità. E permettano a questo paese di dotarsi di una guida, qualunque essa sia. Ma i partiti non ci stanno, da quell’orecchio proprio non ci sentono. Il perché è presto detto.

Per quale ragione dovrebbero mettersi in gioco, gareggiare alla pari e correre il rischio che uno dei due vinca e conquisti palazzo Chigi? Aveva ragione da vendere il capo dello Stato nel richiamare alle larghe intese del 1976, anche se il pressappochismo di certa stampa biancarossaeverde non ha letto nella filigrana delle sue parole. Non intendeva solo auspicare un incontro, un confronto, un dibattito quanto si appellava alla capacità di essere statisti e non semplici segretari di partito, giganti in grado di caricarsi sulle spalle il fardello del paese e non natanti di piccolo cabotaggio alla ricerca del primo porticciolo per mettersi al sicuro.
Insomma, si appigliava allo spessore di quei grandi leader di ieri. Neanche lontanamente parenti della mediocrità degli interpreti di oggi.
twitter@FDepalo

Impasse elettorale? No, follia da piccolo cabotaggio

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