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Chi si reca in pellegrinaggio a Bussetto, luogo natale di Giuseppe Verdi, trova, accanto al municipio (dove è racchiuso un minuscolo ma mirabile teatrino), un albergo stile anni ‘50, con armature medievaleggianti in ferro battuto ed imitazioni di mobilio veneziano. Si chiama “I due Foscari” e lo ha gestito per decenni una delle grandi voci verdiane Carlo Bergonzi (classe 1924). È difficile capire perché tra i tanti titoli delle 27 opere di Giuseppe Verdi, Bergonzi abbia scelto proprio “I due Foscari”, una dei melodrammi meno noti del compositore, come nome per l’albergo. “La Traviata” od “Otello” forse sarebbe potuti sembrare un po’ equivoci; “Falstaff” troppo lepido; “La forza del destino” – lo sappiamo – è menagramo. Ma “Trovatore” sarebbe potuto sembrare perfetto per un albergo di provincia: un titolo noto, accattivante, con un sapore di mistero ed un’aura sentimentale-romantica?

Perché allora “I due Foscari”? E’ l’opera più breve ed una delle meno rappresentate di Verdi, ignorata addirittura per circa cinquanta anni sino a quando non venne “riscoperta” da Giulini per una delle memorabili esecuzioni della Rai. Venne ripresa sotto l’egida di Francesco Siciliani per il Maggio fiorentino e definitivamente rilanciata da Bruno Bartoletti a Roma nel 1968 in un allestimento magico che approdò al Metropolitan e preparò i veri e propri. E’ un’opera cupa, tratta da un poema ancor più cupo di Byron. In scena non avviene nulla in quanto tutto è avvenuto prima ed i fatti di rilievo che succedono durante i tre atti si verificano, in gran misura, dietro le quinte. Ha solo tre personaggi di rilievo; dato che segue quasi le regole dell’unità aristotelica (tutto in giorno, nel Palazzo Ducale e dintorni), anche lo sviluppo psicologico dei protagonisti è limitato.

Ildebrando Pizzetti, che ne adorava lo spartito e ne promosse la rappresentazione scenica del 1968, ne vedeva un dramma in musica modernissimo. In effetti, anche se “I due Foscari” appartiene agli “anni di galera” di Verdi (e come tale viene eseguita, ad esempio, nella versione concertata da Maurizio Arena nell’edizione discografica Nuova Era del 1984), è una tragedia lirica, per alcuni aspetti agganciata alla prima metà dell’Ottocento e per altri già rivolta alla fine del secolo, ove non al Novecento; pezzi chiusi, naturalmente, ma pochi, intercalati da brevi intermezzi, enfasi sul declamato ed un continuo orchestrale denso di mezze tinte (pur nella cupezza generale dell’opera).

Non è solo una tavolozza di “Simon Boccanegra”, uno dei lavori più sentiti da Verdi (ci lavoro per quasi tre lustri), nonché più commoventi. È un piccolo, scarno capolavoro imperniato sull’amor filiale (tema centrale della vita e dell’opera di Verdi); ciò spiega il successo degli ultimi anni con edizioni in Italia ed all’estero.

Dalle scene del Teatro dell’Opera di Roma manca del 2001, quando riapparve dopo 33 anni; allora Bruno Bartoletti regalò un’esecuzione magica rivolta ad illuminare i toni scuri del lavoro. Renato Bruson, con 40 anni di palcoscenico sulle spalle, era ancora un grandissimo Francesco Foscari; la voce ha, senza dubbio, perso lo smalto che aveva nell’edizione del Regio di Torino di 17 anni prima, ma la sua presenza scenica è inconfondibile, non solo nel tragico finale del lavoro. Darina Takova era una Lucrezia dolente più che appassionata, Ivan Momirov un Jacopo Foscari sofferto ma dall’ampio registro. Pierluigi Pizzi (che aveva allestito il lavoro alla Scala nel 1979) dipingeva una Venezia grigia su cui si stagliano i costumi rossi del Consiglio, l’oro del manto di Francesco, l’azzurro di Lucrezia ed il nero funereo di Jacopo. Uno spettacolo, quindi, da vedere.

L’opera si vedrà di nuovo a Roma dal 6 al 16 marzo in un’edizione (che andrà in Giappone) fortemente voluta da Riccardo Muti. La regia di Werner Herzog e le scene ed i costumi di Maurizio Balò ci portano in una Venezia fredda e glaciale, quasi spettrale. Luca Solari è Francesco Foscari, Francesco Meli Jacopo, e Tatiana Serjan (in alternanza con Csilla Borross Lucrezia. Da non perdere.

Riccardo Muti riporta a Roma “I due Foscari”

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