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La sostenibilità se presa ideologicamente può creare una crisi di rigetto”. Quanta verità nelle parole del Ministro Giorgetti nel corso di un convegno alcuni giorni fa. Nello stream di pensiero unico in cui ci siamo progressivamente avviluppati negli ultimi 20 anni, richiami come questo assumono un significato particolare, e possono incontrare alleati insperati, purché si faccia attenzione a tre pericoli che corre la sostenibilità: i pretesti, l’ideologia, e la moda.
Vorrei soffermarmi sui pretesti.
Non serve ribadire che la riduzione delle emissioni di CO2 ed il miglioramento della qualità ambientale sono finalità meritevoli di essere perseguite, e non hanno alcuna connotazione politica o ideologica. Semmai gli indirizzi delle politiche adottate possono avere un maggiore o minore impatto sulla spesa pubblica, e conseguentemente segnare una maggior responsabilità (o merito) del governo che li fa propri. Le politiche per la sostenibilità possono infatti avere conseguenze eterogenee sulle finanze pubbliche, e in alcuni casi possono presentare dei rischi.
L’Unione Europea, dalla Dichiarazione di Kyoto in poi, ha fatto passi da gigante, se è vero che ad oggi ha raggiunto tutti i target assegnati, con una performance ambientale che riflette risultati molto positivi. Si pensi alla riduzione delle emissioni di gas serra ben oltre gli obbiettivi di Kyoto, che ha portato l’UE ad alzare l’asticella al 55% di riduzione entro il 2030.
Sarebbe tuttavia sbagliato pensare che la sostenibilità non sia uno tra i diversi obiettivi politicamente desiderabili, ma l’unico obiettivo. Servono politiche globali coordinate, ovvero orizzontali, che siano coordinate e che tengano in considerazione le specifiche risorse energetiche e capacità di ciascun paese, sulla base di dati certi. Giova notare al riguardo come la tassonomia verde abbia da poco incluso le attività energetiche dei settori del gas e del nucleare nell’elenco delle attività economiche eco-sostenibili.
Per declinare in modo razionale gli obbiettivi globali occorre riconoscere che i due importanti blocchi economici – USA da una parte e “CIndia” più Russia dall’altra – emettono anidride carbonica in quantità elevate e sproporzionate rispetto al resto del globo. Sul punto, un’Europa iper-diligente che continua a rivedere i traguardi – come il già citato innalzamento della riduzione delle emissioni al 55% entro il 2030 – fornisce sì un esempio al mondo, ma rischia di confondere l’obbiettivo con un pretesto, assumendosi responsabilità eccessive in ordine al proprio ruolo nello scacchiere globale (l’Europa è un continente di consumatori, le grandi produzioni sono in Cindia e US). L’effetto di “revisioni in corsa” dei targets da raggiungere allunga inevitabilmente i tempi per predisporre i piani nazionali che devono indicare come raggiungere quei targets, con la conseguenza che le imprese otterranno solo in ultima battuta quelle informazioni di cui necessitano per mettere in atto investimenti considerevoli, con modifiche conseguenti sui modelli di produzione (a monte) e di consumo (a valle) e pertanto sui costi a carico dei consumatori.
Ecco come la politica ambientale usata come pretesto può avere sempre meno a che fare con l’ambiente e sempre più a che vedere con precise scelte di carattere industriale. Ogni volta che si favorisce una tecnologia o se ne ostacola un’altra, si rinuncia a strumenti potenzialmente utili a contrastare il cambiamento climatico. Come sottolineato da autorevoli esperti, l’evoluzione tecnologica segue spesso sentieri contorti, per cui ciò che sembrava inutile può improvvisamente diventare necessario.
Questo cambio di prospettiva può spostare l’attenzione dall’obiettivo ambientale (tagliare le emissioni) ad indirizzare risorse umane, finanziarie e politiche verso altre finalità (la promozione di specifiche tecnologie, ad esempio). Le implicazioni di questa scelta mossa da un “pretesto” possono sì essere ambientali, ma anche economiche e sociali, in quanto inevitabilmente vi saranno industrie “vincitrici” e industrie “perdenti”, con effetti a cascata anche sui consumi.
Mettere in discussione un approccio “pretestuoso” non significa essere contro l’ambiente, ma sostenere un sistema di regole equilibrato, sufficientemente flessibile e soggetto ad aggiornamenti (ad esempio gli atti delegati in sede comunitaria) per andare incontro alle specificità dei singoli sistemi produttivi secondo i tempi della tecnologia. Norme – v. ad esempio il regolamento comunitario sulla Tassonomia, corredato dei propri atti delegati – che osservano la realtà nella sua evoluzione e riconoscono merito al bene che sviluppo e innovazione tecnologia possono fare realisticamente alla società e all’ambiente.
Questo approccio, sostenuto da basi scientifiche e da una cultura di crescita e sviluppo economico, ma anche consumer friendly, si contrappone a coloro che dell’ambientalismo fanno un pretesto per imporre politiche poco avvedute, o una bandiera ideologica per giustificare modelli di decrescita o, ancora, forme di assistenzialismo deresponsabilizzante.
Come diceva Willard Thorp, economista che ha servito tre presidenti americani, “la prosperità è indivisibile come la depressione”.

I possibili benefici della sostenibilità e i pericoli da evitare

“La sostenibilità se presa ideologicamente può creare una crisi di rigetto”. Quanta verità nelle parole del Ministro Giorgetti nel corso di un convegno alcuni giorni fa. Nello stream di pensiero unico in cui ci siamo progressivamente avviluppati negli ultimi 20 anni, richiami come questo assumono un significato particolare, e possono incontrare alleati insperati, purché si faccia attenzione a tre pericoli…

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