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Proprio in questi giorni, il rapporto annuale Inapp (Istituto nazionale per l’analisi delle politiche pubbliche) ha confermato una sensazione diffusa: i salari degli italiani sono bassi. Non solo questi sono rimasti sostanzialmente al palo negli ultimi 30 anni ma, mentre crescevano di un misero 1%, nel resto dell’area Ocse la crescita media è stata del 32,5%.

La notizia è di quelle rilevanti, anzi dovrebbe essere una di quelle che colpiscono come un pugno allo stomaco togliendo il fiato ma, come spesso capita in Italia sta passando sostanzialmente ignorata. Eppure, il report certifica una situazione sulla quale non si può più procrastinare.

L’Italia e molte delle sue imprese seguono ormai un modello di lavoro non più sostenibile e ben poco produttivo. In un mondo in cui si sta facendo largo la settimana di quattro giorni lavorativi a parità di stipendio da noi rimane in voga lo stakanovismo improduttivo a oltranza, perché nel dubbio sempre meglio salvare le apparenze.

Il report Inapp non è solo una bocciatura ma una vera e propria stroncatura di tutto il modello adottato sino ad ora, a cominciare dalla contrattazione collettiva che si è rilevata del tutto inefficace, per non parlare delle vaghe politiche di incentivo alla occupazione femminile.

In tutto questo, il vero dibattito sul salario minimo latita tra le varie partigianerie. In molti negano che vi sia un problema, ad iniziare da alcune frange politiche, eppure è evidente che il potere di acquisto degli italiani si sia drasticamente ridotto, impoverendo ogni settore sociale ed economico. Ricorrere al salario minimo non è un attentato alla Costituzione, semmai è un atto di civiltà se si pensa che i 9 euro l’ora di cui si parla non sarebbero poi una cifra che consente di fare i nababbi. Semplicemente, le forme di contrattazione collettiva funzionano per cifre superiori a quella, mentre per tutto ciò che sta al di sotto è necessaria una soluzione alternativa.

Nel frattempo, una prima iniziativa tampone potrebbe essere quella di ripristinare iniziative di adeguamento dei salari al costo della vita reale e all’inflazione, quantomeno per ridurre l’erosione del potere d’acquisto dei dipendenti. Il secondo intervento dovrebbe riguardare seri interventi di riduzione del costo del lavoro che, vuoi o non vuoi, è un convitato di pietra (e talvolta persino un feticcio) con cui è bene confrontarsi.

Fra tutti, comunque, il report Inapp ha il grande merito di squarciare il muro di omertà sul tema e mettere in evidenza le lacune di un sistema che così com’è non è più sostenibile con il sempre più vivo pericolo di disordini sociali che dovranno poi gestire proprio coloro i quali ora negano il problema; perché tra regalie e politiche di welfare reale c’è una bella differenza, purché lo si voglia capire.

Salario minimo? Gli stipendi degli italiani sono i più bassi dell'area Ocse

Il recente rapporto Inapp non è solo una bocciatura ma una vera e propria stroncatura dell’intero modello italiano, a cominciare dalla contrattazione collettiva e dalle vaghe politiche di incentivo alla occupazione femminile

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