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La maratona per sfuggire al baratro fiscale è agli sgoccioli. E con gli Stati Uniti tremano anche le borse di tutto il mondo, che non distaccano gli occhi dalla Casa Bianca. La giornata di ieri a Washington si è infatti conclusa senza che si sia giunti a un accordo bipartisan che eviterebbe in extremis agli Stati Uniti di cadere nel “fiscal cliff”, il “precipizio fiscale” che costringerebbe il Paese a subire un aumento automatico della pressione fiscale combinato con forti tagli alle spese. E il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, ha accusato i repubblicani di “intransigenza”, ritenendoli responsabili della crisi provocata appunto dal “fiscal cliff”.

Ma cosa comporterebbe davvero il fallimento delle trattative tra repubblicani e democratici in materia? La più grande riduzione di costi, da 65 miliardi di dollari, sarebbe quella che colpirebbe automaticamente la gran parte dei programmi federali nei primi nove mesi del 2013. Questo taglio generalizzato – noto come Sequester – è previsto da un accordo sul budget federale trovato nell’agosto 2011 tra Obama e il Congresso e che pose fine a uno scontro sull’innalzamento del tetto del debito pubblico. In quell’intesa, le parti si accordarono su una riduzione della spesa pubblica da 1.000 miliardi di dollari in 10 anni e sull’identificazione – a compiere entro il gennaio 2013 – i ulteriori 1.200 miliardi di dollari di risparmi. Se Obama e i Repubblicani alla Camera non troveranno un accordo su quest’ultima parte, i tagli automatici alla spesa pubblica entreranno in vigore.

I pagamenti ai dottori così come previsti dal programma federale Medicare, che garantisce un’assicurazione medica ai chi ha 65 anni e oltre, verrebbero tagliati del 27%, pari a 11 miliardi di dollari. Il motivo, in questo caso, è legato al fatto che il Congresso non ha approvato, come accade solitamente, il cosiddetto “doc fix” che serve proprio a impedire tagli di questo tipo, che invece sono previsti da una legge del 1990 volta a limitare i costi a carico del governo centrale.

Anche un programma di emergenza pensato per i disoccupati sta per scadere, fattore che garantirebbe risparmi per 26 miliardi di dollari ma lascerebbe con le tasche vuote milioni di americani rimasti senza un lavoro.

Il rischio è quello del raggiungimento a gennaio del limite massimo del debito pubblico, elemento che aggiunge ulteriore incertezza sul futuro del Paese. Il dipartimento del Tesoro potrebbe, attraverso una serie di mosse contabili, posticipare tale raggiungimento fino al marzo prossimo, ma Obama preferirebbe l’innalzamento del tetto al debito pubblico come parte di un accordo sul fiscal cliff, aggiungendo così un’altra questione spinosa al tavolo dei negoziati.

Il principale nodo da sciogliere rappresenta l’aumento dell’imposizione fiscale che, per Obama, deve avvenire sul 2% degli americani che guadagnano oltre 250.000 dollari all’anno. La controparte Repubblicana ha lungamente difeso l’intenzione di estendere per tutti gli americani i benefici fiscali introdotti dall’ex presidente George W. Bush e in scadenza nel dicembre 2010. Due anni fa Obama, seppure con riluttanza, concesse il loro rinnovo per altri due anni in cambio però del via libera dei Repubblicani alla riduzione temporanea delle tasse sugli stipendi e all’estensione degli aiuti ai disoccupati. Questa volta il presidente non sembra intenzionato a cedere. La linea dura della Casa Bianca ha portato venerdì scorso a qualche concessione da parte dei Repubblicani: è stato offerto un incremento delle aliquote per chi guadagna oltre un milione di dollari all’anno.

Quello alla Casa Bianca è un count-down da paura

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