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Nel godibile articolo di Angelo Panebianco (La vera grande riforma) c’è un equivoco che va chiarito. Le nuove imposte sulla banche non mirano a colpire un extraprofitto. Da questo punto di vista le argomentazioni dell’editorialista del Corriere sono ampiamente condivisibili. In un’economia di mercato non esistono extraprofitti, ma solo profitti. Al più possono esistere posizioni di monopolio o di oligopolio, ma in questo caso è l’Antitrust che deve intervenire. Il provvedimento del governo, che dovrà ancora passare il vaglio del Parlamento, non mira, quindi a colpire questo moloc, ma il margine di interesse e quello di intermediazione.

Secondo l’ultimo Bollettino della Banca d’Italia (n.3 luglio, pag. 40) il primo è aumentato, nei primi tre mesi dell’anno, del 49,4%, rispetto al corrispondente periodo dell’anno passato, quando l’incremento era stato del 6,7 per cento. Il secondo del 16,4 per cento, contro lo 0,2 precedente. In conseguenza di questi movimenti, il Roe (return on equity), vale a dire il reddito netto sul capitale investito, è passato dal 5,8 al 13,5 per cento. Quel 7,7 per cento in più, sarebbe quindi il cosiddetto extraprofitto, secondo la vulgata corrente. Riflesso degli incrementi intervenuti nei comparti precedentemente indicati.

Nei bilanci delle banche, gli indicatori appena considerati sono parametri importanti. Il margine d’interesse rappresenta la differenza tra gli interessi passivi, pagati sulla provvista (depositi, prestiti da altre istituzioni e via dicendo), e gli interessi attivi, corrisposti dai debitori per mutui, finanziamenti o altri tipi di prestiti. Il margine di intermediazione, invece, tiene anche conto di tutti gli altri proventi, tipici del mercato finanziario, e delle eventuali perdite, come quelle su crediti. Dal confronto tra questi due indici (49,4 contro il 16,4%) è facile vedere da dove nascono i forti dividendi, che il sistema bancario si appresta a distribuire.

Il margine d’interesse è cresciuto a seguito della politica restrittiva della Bce che ha progressivamente aumentato il tasso di riferimento. Di conseguenza sono aumentati tassi sui mutui e, più in generale, quegli sugli affidamenti. Mentre quello sui conti correnti non solo sono rimasti a zero, ma la spesa per la loro gestione, quindi a carico del risparmiatore, nel 2021, secondo i dati di Banca d’Italia, è stata pari in media a 94,7 euro (Indagine sul costo dei conti correnti nel 2021). La spiegazione dell’arcano nella parole di Antonio Patuelli, presidente dell’ABI, l’Associazione bancaria italiana: “Il conto corrente non è uno strumento di investimento. Normalmente lo si ha in una logica di servizio. Accanto ci sono i conti di deposito, quelli sì pensati per il risparmio: ci sono ovunque pubblicità di queste soluzioni che danno rendimenti a sei mesi o a un anno che sono di tutto rispetto, competitivi con quelli dei titoli di Stato”.

Risposta convincente? Secondo i dati di Bankitalia, (Banche e moneta serie nazionale, maggio 2023) nel marzo del 2023 i depositi in conto corrente ammontavano a 1.462 miliardi di euro. I conti di deposito (scadenza 2 anni) a 73,8 miliardi, (scadenza 3 mesi) 324. Sul totale delle risorse questi ultimi superavano appena il 21 per cento del totale, per poco meno di 400 miliardi. Potevano sorreggere l’intera impalcatura dei prestiti concessi, che, nello stesso periodo, ammontavano a oltre 2.520 miliardi? Questi numeri consentono di capire meglio perché il “servizio” del conto corrente, per riprendere il Presidente dell’ABI, costi così poco, considerato tra l’altro il bollo a favore dell’Erario. Per il semplice fatto che quelle risorse non sono congelate in un santuario, ma rappresentano, giustamente, lo strumento principe della normale attività di banca.

Sul piano giuridico, del resto, se quelle tesi fossero corrette, il contratto di deposito bancario dovrebbe essere equiparato a quello del deposito ordinario (1766 c.c.). La banca non avrebbe la possibilità di usare il denaro ricevuto, ma solo l’obbligo di riconsegnarlo alla scadenza pattuita. Il depositante, a sua volta, dovrebbe rifondere le spese per la sua conservazione. Nel caso dei depositi bancari, la fattispecie giuridica è, invece, quella dell’articolo 1834 del C.C. Una variante dell’articolo 1782 che tipicizza il cosiddetto deposito irregolare. La principale differenza consiste nel fatto che, durante il periodo del deposito, il depositario acquista la proprietà del bene, che può usare a suo piacimento. Salvo restituire la somma ricevuta alla relativa scadenza. Ovviamente il presupposto di tutto ciò è il pagamento di un compenso a favore del depositante.

Intrecciando gli aspetti economici con quelli giuridici, l’ipotesi che il deposito in conto corrente non sia da retribuire con il pagamento di un interesse è tesi ardua da dimostrare. Se fosse così, non si capirebbe, tra l’altro, il bail-in. Vale a dire la responsabilità del depositante, in caso di fallimento della banca, per importi superiori ai 100 mila euro, i soli coperti dall’assicurazione bancaria. Se le somme depositate, nei conti correnti, non potessero essere usate dalla banca nella sua specifica attività, ogni ipotesi di possibile fallimento verrebbe meno. E quindi la stessa responsabilità indiretta del depositante. Che invece non decade, proprio perché quelle somme possono essere liberamente utilizzate dalla banca. Che, a sua volta può fallire, e quindi coinvolgere il risparmiatore. Ma se questa è la realtà delle cose, allora il pagamento di un interesse, (compenso per il rischio) ne è logica conseguenza.

Si vedrà nei prossimi giorni quale sarà il parere della Bce sull’intera vicenda. Nell’attesa vale, tuttavia, la pena ricordare alcune regole elementari. Attualmente la Bce prevede tre distinti tassi d’interesse: pari al 4,25% per le operazioni di rifinanziamento ordinario, al 4,5% per quelle marginali (brevissimo termine) e del 3,75 sui depositi che le singole banche decideranno di accendere presso la sede di Francoforte. Si tratta di operazioni normali, considerando il contesto congiunturale dell’Eurozona. Talmente normali da fare apparire come una stravaganza l’ipotesi che i depositi di conto corrente in Italia debbano essere free, come se non fossero determinanti ai fini del normale svolgimento complessivo dell’attività di banca.

Ciò detto, le misure assunte dal governo appartengono forse al migliore dei mondi possibili? Difficile sostenerlo. Banca d’Italia doveva intervenire prima e convincere le banche a retribuire, in misura equa, i conti correnti. O almeno far sì che le principali banche non facessero “cartello”, facendo la tara alle deboli argomentazioni portate a sostegno della “gratuita”: una tesi fin troppo interessata. Il ritardo ha finito per compromettere le soluzioni successive. Per cui alla fine al governo non è rimasto altro che intervenire con uno strumento pesante, come quello della tassazione. Che, tuttavia, non penalizza tanto le banche, quanto i titolari dei conti correnti, che come nella canzone di Jannacci (“Ho visto un re) sono state le vere vittime sacrificali.

Perché le banche non sono credibili nella polemica con il governo. L'analisi di Polillo

La Banca d’Italia doveva intervenire prima e convincere gli istituti a retribuire, in misura equa, i conti correnti. O almeno far sì che le principali banche non facessero cartello. Il ritardo ha finito per compromettere le soluzioni successive. Per cui alla fine al governo non è rimasto altro che intervenire con uno strumento pesante, come quello della tassazione. Il commento di Gianfranco Polillo

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