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L’industria delle news è in gran movimento in tutt’Europa. Con segnali non omogenei, ma comunque forti: che rimbalzano su un’Italia nella quale editori e giornalisti “old” si dibattono fra ricette anti-crisi vecchie e rozze (esuberi, prepensionamenti, chiusure, richieste di sussidi pubblici, resistenza a investire) e campagne vetero-corporative faticosamente rivestite dei panni di battaglie di democrazia (il finto sciopero contro la “legge Sallusti”).

Nel frattempo, Le Monde, che sembrava il burosauro meno salvabile della grande stampa europea, in settimana ha presentato il suo nuovo format: grafica ridisegnata, offerta arricchita di allegati, processi industriali e distributivi modernizzati. Due anni fa il quotidiano della “gauche” francese era in pre-bancarotta. Ma appena i giornalisti hanno ceduto sulla pretesa antidiluviana di controllare con i metodi di una comune sessantottarda un “medium” della complessità di Le Monde nel 2010, si è aperta un’asta.

Da un lato un editore industriale (Nouvel Observateur), appoggiato – senza scandalo al di là delle Alpi – da un colosso delle tlc come France Telecom. Dall’altro una cordata di investitori finanziari, ma non qualsiasi: il banchiere d’affari Matthieu Pigasse, l’industriale del lusso Pierre Bergé e l’imprenditore internet Xavier Bergé. Certo, la politica ci ha messo lo zampino nel favorire l’affermazione di Pigasse e dei suoi soci, pur contrastati dal declinante Nicolas Sarkozy. Resta il fatto che il piacere di rilanciare Le Monde è costato loro cento milioni: oltre, ovviamente, alla responsabilità imprenditoriale. Che però, ora, comincia a mostrare la quanto meno la sua azione.

In ogni caso: Le Monde era in crisi finanziaria e industriale, ma il marchio e il valore della redazione c’erano. È bastato appendere un cartello “Nuovi imprenditori e nuovi capitali cercansi” e sono arrivati gli uni e gli altri. Certo, in un mondo nuovo anche il prestigioso giornalismo di Le Monde e i suoi produttori hanno dovuto fare i conti con il mercato, con tutte le sue regole e i suoi prezzi. E naturalmente un sistema-Paese come la Francia si è pure concesso il lusso di tenere il riassetto di un pezzo importantissimo del paesaggio politico-mediatico rigorosamente entro i confini della “francesità”: una battuta d’assaggio dell’italiano Espresso è stata declinata al primo istante.

C’è un’altra grande testata che sta cercando nuovi imprenditori disposti a puntarci capitali: ilFinancial Times, principale quotidiano finanziario globale. Fra le divisioni del gruppo Pearson (molto concentrato sull’education), FTGroup (cui fa capo anche il 50% dell’Economist) non è il business più brillante, anzi. Il Financial Times è dunque virtualmente in vendita: e ovviamente – nell’East End londinese – si è già formata una lunga coda di pretendenti. Non manca nessuno: Thomson Reuters (la più tecnologica cugina-rivale come voce della City); Bloomberg (il rampante gruppo media di Wall Street e del sindaco di New York) e naturalmente NewsCorp.

Su una fila distinta si muovono gli intermediari di investitori istituzionali non sempre identificati: un paio di fondi sovrani del Golfo; qualche oligarca russo sosia di Roman Abramovich; si dice perfino un fondo cinese (cioè, in ogni caso, il regime di Pechino) disposto anche solo a una presenza di supporto pur di insediarsi in uno dei palazzi più esclusivi del potere mediatico planetario. Il prezzo? Viene fatta circolare una stima indicativa di un miliardo di sterline, 1,3 miliardi di euro. Dubbi sul fatto che la vendita vada in porto? Zero. Influenze attese dalla geopolitica? Inevitabili per il più autorevole “corriere” dei mercati globali, ma quasi sicuramente non in chiave di “britannicità”, in un sistema finanziario apolide.

Ci sarebbe da stupirsi se FT avesse una delle sue basi nello stesso building di Al-Jazeera, in Qatar? L’emiro e i suoi fondi sono più liquidi e dinamici delle malandate banche inglesi E poi molti “master of the universe” che ancora immaginiamo nei club di Saint James, di Manhattan o di Ginevra lavorano già da tempo ad Abu Dhabi o Singapore: oppure direttamente da bordo piscina a Malibu. Dove comunque non cesseranno mai di leggere FT (o qualsiasi “media” di qualità): anzi ne vorrebbero sempre di più, ma sempre sulla “next thing” tecnologica.

Gianni Credit

(la versione integrale dell’articolo si può leggere qui)

Giornali in crisi? Non tutti. I casi di Le Monde e di FT

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