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Negli ultimi mesi, è aumentata l’ostilità del Movimento 5 Stelle nei confronti dell’informazione televisiva, in particolare contro i talk show politici. A settembre: il caso Favia, che in una puntata di Piazzapulita, sostiene l’assenza di democrazia all’interno del Movimento. Ad ottobre: durante la campagna elettorale in Sicilia, Beppe Grillo accusa i servizi giornalistici (della testata regionale Rai) di informazione falsata circa i comizi del leader M5S.
 
Poi, la partecipazione, a Ballarò, di Federica Salsi, consigliere comunale M5S a Bologna. E, subito, il commento a caldo di Grillo: “di punto G dei suoi… Quello che ti dà l´orgasmo nei salotti dei talk show”. Il risultato è evidente. Nei giorni seguenti, nel Movimento, s’introduce il divieto di rilasciare interviste tv. A farne le spese: due attivisti di Roma, che avevano risposto ad alcune della giornalista del programma Agorà, di Raitre.
 
Più da vicino: la concezione del Movimento 5 Stelle si fonda sull’idea che i talk show politici manipolerebbero l’informazione pro “casta”. Dunque, l’intervento in tv di un esponente del Movimento farebbe perdere consensi (ovvero voti). Beppe Grillo rincara attaccando Lerner, Fazio, Formigli, di essere al servizio di alcuni esponenti politici.
 
Allora: ha ragione o torto, Beppe Grillo, a prediligere la comunicazione autoprodotta, sul web (è stato annunciata la nascita del canale Tv 5Stelle), a discapito delle apparizioni nei programmi di punta dell’informazione nazionale? Vent’anni fa Silvio Berlusconi poteva lanciare Forza Italia, avvalendosi di un sistema editoriale integrato, che espandeva il proprio messaggio elettorale in modo massivo, dalle reti TV Fininvest alle riviste della Mondadori e del quotidiano di famiglia. In pochi mesi, difatti, diventava premier. Negli anni successivi, allargando la propria influenza alla Rai: traeva ulteriore vantaggio, arrivando alla rielezione per ben due mandati.
 
Più in generale, nel nostro paese la qualità dell’informazione è peggiorata. Nonostante la diffusione di internet. Anzi, secondo la classifica di Reporter sans frontières, i livelli di pluralismo si aggravano in tempi recenti. Nel 2011, l’Italia scende al 61° posto, dopo un 2010 che la collocava al 50°. Peraltro, la questione della qualità dell’informazione passa in secondo piano.
 
Eppure, il “deficit di democrazia” nel sistema dei media impegna costantemente le alte cariche dello Stato. Nel dettaglio: gli ultimi due Presidenti della Repubblica. Carlo Azeglio Ciampi, durante il suo settennato, esortava al pluralismo dei mezzi d’informazione. Addirittura: il Messaggio al Parlamento, con cui richiamava l’assemblea legislativa alla salvaguardia dei principi di imparzialità e pluralismo in televisione.
 
Nel 2009, anche Giorgio Napolitano, in occasione della Giornata dell´informazione, affermava “rispettare il pluralismo in TV e di distinguere la democrazia dal dispotismo”. Ancora, lo switch-off al digitale terrestre avviene con la legge Gasparri (tutt’ora vigente). Pur proponendo un maggior numero di reti tv, l’attuale sistema televisivo ha in ogni caso tutelato, per prima cosa, le posizioni dominanti di Rai e Mediaset.
 
Le due aziende, infatti, aumentano sensibilmente il numero di canali, vedendosi altresì assegnare le migliori numerazioni del telecomando. Ma va anche detto che per quanto riguarda l’informazione, sono anche gli unici editori che hanno lanciato un canale all news in chiaro (Rainews24 e TgCom24).
 
Ad ottobre 2012 la quota d’ascolto di Rai e Mediaset raggiunge il 73% del totale ascolto. Nel 1994 era del 91%. Se l’audience cala ed anche la torta pubblicitaria diminuisce: ciò che non subisce effetti negativi è il livello d’ascolto dell’informazione delle principali edizioni dei TG Rai e Mediaset.
 
Non è un caso che l’informazione Rai e Mediaset sia salda all’80%, sebbene il TgLa7, diretto da Enrico Mentana, ed il canale pay Skytg24 con due due finestre informative in chiaro, sul canale Cielo abbiano un po’ migliorato l’offerta di news. Anche considerando l’ascolto dei talk show politici, il risultato non si sposterebbe molto da queste percentuali.
 
A tutt’oggi, quindi, l’informazione Rai e Mediaset svolge ancora un ruolo preminente nella costruzione del consenso sull’opinione pubblica. Per di più: la giurisprudenza relativa al sistema TV digitale ignora l’esigenza di estendere il numero di concorrenti nell’ambito dell’informazione televisiva. L’arrivo sul digitale terrestre del gruppo Repubblica-L’Espresso è irrilevante sul piano degli ascolti, visto che gli investimenti nella produzione di contenuti giornalistici sono apparsi marginali.
 
Peraltro le emittenti televisive, con il passaggio al digitale terrestre, non sono più obbligate a fare informazione. Contrariamente a quanto prescriveva la Legge Mammì del 1990, che concedeva la diretta televisiva in cambio del varo di testate giornalistiche. Il testo, infatti, contemplava il diritto-dovere, per tutte le emittenti nazionali, ma anche per le locali, di aprire una testata giornalistica e di produrre almeno il 20% di programmi giornalistici.
 
Ad appesantire il quadro generale: il fatto che produrre news ed approfondimenti giornalistici è oneroso per le emittenti. Ne sanno qualcosa i direttori generali della Rai. Per mantenere una decina di testate ed assicurare gli stipendi a migliaia di giornalisti: devono, ogni volta, ridurre i costi di produzione di news ed approfondimenti, tagliare sulle missioni degli inviati e sulle le sedi di corrispondenza.
 
In merito, è da evidenziare la battuta del 1994 di Franco Tatò, allora amministratore delegato di Fininvest, scatenante la bufera nei Tg del biscione. Nell’intervista a La Stampa esplicitava: “Se non ci fosse un obbligo preciso della legge Mammi´ chiuderei tutti i Tg Fininvest e molte trasmissioni di informazione che ci costano moltissimo. Non sono nella natura della nostra tv commerciale e ci procurano gravi imbarazzi politici, soprattutto adesso”.
 
Di qui, il suggerimento a rafforzare la democrazia nell’informazione televisiva, all’interno dell’offerta mediatica. Sia sul digitale terrestre, sia nella convergenza web-tv (OTT Over-the-Top) che s’imporrà nei prossimi anni. Ciò, a fronte di un’esigenza di attenzione dei valori menzionati, prima da Carlo Azeglio Ciampi, e poi da Giorgio Napolitano.
 
Nel riordino della disciplina televisiva, che avrà il compito di regolare gli standard trasmissivi derivanti dalla convergenza web-tv, si tenga conto di impegnare i nuovi concessionari, come accadeva con la Legge Mammì, a destinare una quota di prodotto a programmi d’informazione tramite una testata giornalistica. Di modo che una pluralità di operatori possano garantire all’opinione pubblica una più estesa proposta di news e di programmi di approfondimento, al pari di Rai, Mediaset, La7 e Sky. Questo, in qualche maniera aiuterebbe a migliorare la qualità dell’informazione televisiva.

Il pluralismo dell’informazione ai tempi del digitale terrestre

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