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Gli attacchi alle strutture diplomatiche Usa in Libia ed Egitto (cui si aggiungono le tensioni attorno a quelle in Yemen) suscitano forti reazioni nell’élite geopolitica statunitense, che è spinta a chiedersi quale tipo di ritorno ci si possa aspettare dall’investimento effettuato nella Primavera araba.
 
Alcuni centri di ricerca difendono la scelta di fondo di Obama: l’appoggio alla modernizzazione islamica proclamato all’Università del Cairo nel famoso discorso del giugno 2009. Su Foreign Policy H.A. Hellyer, esperto britannico del Medio Oriente presso il Brookings institute, chiede che si fermi la “spirale di radicalizzazione” sia in America (evidente riferimento alle polemiche di Romney) che nella regione. In particolare, Hellyer stigmatizza il comportamento della Fratellanza musulmana che, nonostante il forte investimento economico e politico americano di questi mesi, continua a patrocinare le proteste.
 
Anche il New america foundation, centro di influenza strategica cui fa capo l’astro nascente della geopolitica, l’indostatunitense Paragh Khanna, chiede che si metta la sordina alle polemiche islamofobiche. A cui non si sottrae, invece, Daniel Goure del Lexington institute, prestigioso think tank espressione di correnti del Pentagono, che però coglie il fondo politico-ideologico dello scontro: la “tendenza dell’amministrazione a proteggere e perfino a favorire l’Islam e l’islamismo rispetto ad altre religioni”. È esattamente ciò che divide l’establishment liberal dai gruppi dirigenti più legati al retaggio fondamentalista cristiano-nazionale, una divisione su cui si può impostare una lotta per la costruzione di nuove coalizioni in politica estera.
 
Andrebbe se mai ricordato che non è per passare alla storia come più cosmopolita del predecessore che Obama e il suo governo hanno lanciato il programma di “conquista dell’Islam”, ma per precisi interessi economici e militari che completano la catena di alleanze con i grandi Stati strategici: dopo Brasile e India (portati nell’orbita statunitense da Bush jr), si è aggiunta l’Indonesia, dove oggi l’ambasciata Usa di Jakarta svolge un ruolo senza precedenti negli equilibri dell’area. Al prestigioso Csis (Centro studi strategici e internazionali), Antony H.Cordesman cerca di disinnescare la polarizzazione del dibattito post-Bengasi, attaccando implicitamente la linea verbale di Romney. Cosa più interessante, afferma che ci vorrà “un decennio di sforzi diplomatici e di aiuti” da parte americana per sostenere i gruppi islamici moderati contro quelli radicali nell’area.
 
Si tratta di capire, in poche parole, quale corrente nel mare agitato e mutevole della umma politico-religiosa islamica dia le maggiori garanzie di tenuta e stabilità. Scrive sul Financial Times Fred Wherey del Carniege endowment for International peace che i gruppi salafiti di Bengasi sono in realtà “disperati” e isolati dal resto della società libica, che diffida del loro estremismo e della loro intolleranza verso le stesse minoranze islamiche, a partire dai Sufiti di cui hanno profanato recentemente un cimitero. Da questo punto di vista l’ipotesi di secessione della Cirenaica presenta ore più incognite che certezze, anche perché alla fine la regione potrebbe gravitare più sul Cairo che su Tripoli. È dunque all’Egitto che bisogna guardare per cogliere le implicazioni della strategia islamica americana, anche perché il presidente Mosri sta rilanciando lo storico ruolo regionale del Paese.
 
L’appoggio di Obama alla Fratellanza musulmana in Egitto sembrava realizzare un punto di equilibrio avanzato, da cui gestire con maggiori margini i rapporti con l’Arabia Saudita e la sua linea di esportazione del wahabismo. Ma le ultime mosse di Morsi fanno balenare il fantasma della caducità e dell’incostanza della diplomazia mediorientale: è un campanello d’allarme più preoccupante della stessa situazione libica, come ammette il New York Times. Come in un gioco di specchi, i modi e i tempi della normalizzazione nell’Est libico ci diranno qualcosa sulla solidità delle nuove relazioni islamico-americane in Egitto, e di qui nel resto del Medio Oriente.
 

Così i pensatoi Usa giudicano il post-Bengasi

Gli attacchi alle strutture diplomatiche Usa in Libia ed Egitto (cui si aggiungono le tensioni attorno a quelle in Yemen) suscitano forti reazioni nell’élite geopolitica statunitense, che è spinta a chiedersi quale tipo di ritorno ci si possa aspettare dall’investimento effettuato nella Primavera araba.   Alcuni centri di ricerca difendono la scelta di fondo di Obama: l’appoggio alla modernizzazione islamica…

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