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A cinquantadue anni dal suo storico viaggio del 1971, Henry Kissinger torna in Cina alla veneranda età di 100 anni, compiendo così l’ultimo straordinario gesto della sua lunga e feconda vita.

Lo riceve anche il Presidente Xi Jinping (che nel ‘71 aveva 18 anni) a testimonianza della forte capacità cinese di mantenere vivo il senso della storia, specialità nella quale noi occidentali abbiamo molto da imparare dalle altre civiltà.

Kissinger torna a Pechino e ribadisce la necessità di un forte rapporto Usa-Cina, anche come elemento essenziale per gli equilibri pacifici del mondo.

Pochi giorni dopo interviene sulle grandi questioni internazionali anche Romano Prodi, con una dura reprimenda all’Europa debole e divisa, sostanzialmente relegata ad una posizione di vassallaggio verso l’alleato americano.

Non c’è motivo per perdere troppo tempo nel ribadire con quanto rispetto vanno ascoltate le parole di chi ha grande esperienza a livello internazionale, quindi Kissinger e Prodi sono voci nobili e importanti.

Occorre però dire anche con una certa franchezza che essi parlano considerando assai più il mondo che hanno conosciuto direttamente che quello attuale, invece sconvolto da poderose e brutali mutazioni di cui non si può che tenere conto.

La Cina in cui si reca Kissinger nel 1971 è un Paese arretrato e afflitto da enormi problemi di sviluppo, incapace di reggere il confronto con gli Usa sotto qualunque profilo diverso dal tavolo di Ping-Pong.

L’apertura e il dialogo di allora non hanno perciò nulla a che vedere con gli equilibri attuali, che vedono il governo di Pechino già titolare del secondo budget mondiale di spese militari e ormai capace di una presenza nei cinque continenti decisiva su tutti i dossier più importanti, dalle attività finanziarie a quelle immobiliari, dalle estrazioni minerarie alle produzioni agricole, dalle strutture di intelligence a quelle culturali.

Ma anche l’Europa di cui parla Prodi e che lui ha guidato non ha nulla a che vedere con quella attuale. Vent’anni fa era a trazione totalmente franco-tedesca sull’asse popolari-socialisti.

Oggi prevalgono i partiti conservatori e la scena politica continentale è piena di soggetti politici legati a doppio filo a leader-fondatori.

È quindi poco sensato criticare ciò che non può esistere, sarebbe invece meglio ammettere che la politica del rigore di bilancio dei mandarini di Bruxelles ha già fatto abbastanza danni provocando persino Brexit, che resta una ferita nella storia europea di cui portano responsabilità anche i gestori del potere Ue nel primo decennio del secolo.

L’Europa di oggi invece fa quello che può e lo fa con una certa dignità, come dimostra la gestione della pandemia e la sostanziale unità nel sostegno all’Ucraina.

A riprova di questo basta provare a rispondere ad una semplice domanda: c’è qualcuno tra Macron, Scholz, Meloni, Morawiecki o Sunak disposto a farsi rappresentare da von der Leyen ai vertici internazionali o alla Casa Bianca?

Siccome la risposta è no, mille volte no, ecco che bisogna fare i conti con l’Europa possibile, quindi quella in cui gli Stati esistono ed anzi non hanno alcuna intenzione di farsi da parte, tanto è vero che i temi dell’interesse nazionale sono all’ordine del giorno ovunque.

Ci vuole grande realismo nel guardare alle relazioni internazionali.

L’ubriacatura da globalizzazione ci ha consegnato un mondo pieno di opportunità ma anche incapace di temperare le disuguaglianze, un mondo che ha duramente impoverito le classi medie europee a tutto vantaggio di oligarchi del petrolio e del gas arabi o russi e di produttori a basso prezzo cinesi, turchi o indiani.

Se Cristiano Ronaldo va a giocare in Arabia Saudita e Iran e Turchia sono i principali produttori di droni usati nella Guerra in Ucraina vuol dire che è cambiato il mondo intorno a noi.

Gli americani non possono più guardare alla Cina con l’atteggiamento da Zio Sam immensamente più ricco di un volta e gli europei devono smettere di sognare un’Europa di Ventotene che non è nelle cose, anche se rimane una prospettiva di alto profilo politico e valoriale.

Il mondo di oggi è drammaticamente immerso in conflitti di ogni tipo, ma non per questo è un mondo senza prospettive di crescita o di pace. Non c’è però peggior modo di affrontarlo che usare categorie fuori tempo.
È il ventunesimo secolo questo e non possiamo farci niente.

Il mondo di Kissinger e Prodi non c’è più. Meglio farsene una ragione

Il mondo di oggi è drammaticamente immerso in conflitti di ogni tipo, ma non per questo è un mondo senza prospettive di crescita o di pace. Non c’è però peggior modo di affrontarlo che usare categorie fuori tempo. È il ventunesimo secolo questo e non possiamo farci niente. Il commento di Roberto Arditti

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