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L’Europa è una potenza economica, ma sul piano politico e strategico è ancora un continente senza voce, un gigante dai piedi d’argilla in un mondo che non aspetta e che si ridefinisce a ogni scossa geopolitica. La guerra in Ucraina ha reso evidente questa fragilità: mentre gli Stati Uniti trattano con la Russia, mentre le nuove alleanze globali si compongono e si scompongono con rapidità vertiginosa, l’Europa appare spettatrice di un dramma che si svolge sul proprio territorio, ma di cui altri scrivono il copione. Non si tratta più soltanto di alzare i livelli di spesa per la difesa, di rispettare la soglia del 2% del Pil o addirittura superarla. Il punto è più profondo e riguarda la capacità di concepire un destino proprio, una strategia autonoma che sappia esprimere una visione del mondo, e non soltanto un adattamento alle dinamiche imposte da altri.

L’Italia, in questo contesto, è chiamata a un ruolo che non può più essere di mero comprimario. Storicamente incardinata nel sistema atlantico, con un’industria della difesa che rappresenta un’eccellenza riconosciuta a livello globale, con una posizione geografica che ne fa un ponte naturale tra l’Europa continentale, il Mediterraneo e il Medio Oriente, l’Italia possiede le caratteristiche per essere uno dei pilastri della costruzione di una politica estera europea degna di questo nome. Ma deve decidersi ad assumere questo ruolo con consapevolezza e determinazione, senza timidezze e senza esitazioni.

La Nato resta il fondamento della sicurezza europea, ma la questione non è più se l’Alleanza Atlantica sia ancora utile: la domanda cruciale è come essa debba evolversi per rispondere a un mondo in cui l’equilibrio tra le potenze è in continua ridefinizione. Non basta più concepire la Nato come un meccanismo guidato dagli Stati Uniti, con l’Europa relegata al ruolo di alleato subordinato. È necessario che gli europei abbiano una voce più forte, che il sistema di governance dell’Alleanza rifletta un bilanciamento più equo tra le due sponde dell’Atlantico. Se l’America si volge sempre più verso il Pacifico, non è per una scelta arbitraria, ma perché lì si gioca oggi la grande partita del potere globale. Ma questo significa che l’Europa, e l’Italia con essa, deve trovare la forza di sostenere la propria parte di responsabilità, deve dotarsi degli strumenti per difendere i propri interessi senza dover attendere il consenso o l’iniziativa di Washington.

La consapevolezza di questa necessità si è fatta più acuta negli ultimi anni, ma il problema rimane la frammentazione interna. La politica estera europea non esiste se non in termini dichiarativi, e senza una politica estera definita, anche il concetto di difesa europea resta una costruzione incompiuta. L’Italia può e deve farsi promotrice di un cambio di paradigma: Roma ha relazioni privilegiate con il Mediterraneo, con il Nord Africa, con il Medio Oriente, è un attore imprescindibile nei rapporti con la regione balcanica e ha una tradizione diplomatica che può offrire un contributo essenziale alla definizione di una visione strategica comune per l’Europa. Ma serve un salto di qualità nella postura politica, una presa di posizione chiara che superi le incertezze di un passato in cui troppo spesso ci si è limitati a seguire decisioni altrui.

L’industria della difesa è un altro tassello fondamentale di questo scenario. L’Europa è una potenza tecnologica nel settore, ma paga il prezzo di una competizione interna che ha reso meno efficienti gli investimenti. L’Italia, con gruppi come Leonardo, Fincantieri, Iveco Defence e MBDA, ha una capacità industriale tra le più avanzate del continente, ma la sfida è inserirsi in una logica di integrazione europea che eviti inutili sovrapposizioni e sprechi di risorse. Non tutti possono fare tutto, e il futuro della difesa europea passa attraverso la capacità di specializzarsi e di costruire sinergie reali tra i diversi attori nazionali. L’Italia ha la possibilità di ritagliarsi un ruolo centrale in questo processo, ma deve farlo con una strategia chiara, senza accontentarsi di essere semplice fornitrice di sistemi d’arma, ma imponendosi come uno degli hub tecnologici e industriali della difesa continentale.

C’è poi il tema, cruciale, delle risorse. L’obiettivo del 2% del PIL in spesa militare è già un traguardo impegnativo per l’Italia, figuriamoci le ipotesi di innalzarlo ulteriormente. È qui che si inserisce la necessità di un ripensamento delle regole fiscali europee: l’idea di escludere gli investimenti nella difesa dal Patto di stabilità e crescita non è solo una proposta tecnica, ma un passaggio politico essenziale per permettere ai Paesi europei di dotarsi di strumenti adeguati alla nuova realtà geopolitica. Se l’Europa intende costruire una propria autonomia strategica, deve dotarsi dei mezzi finanziari per farlo, e questi mezzi non possono essere trovati sacrificando altre voci di spesa essenziali.

Siamo entrati in una fase in cui l’attendismo non è più possibile. La realtà ci costringe a scegliere, e scegliere significa decidere se vogliamo restare un attore periferico della storia o se vogliamo costruire il nostro ruolo da protagonisti. La sicurezza non è un elemento separato dalla politica, ma ne è la diretta conseguenza. E la politica estera non è più un lusso, ma una necessità vitale per chiunque voglia incidere nel mondo che verrà. L’Italia e l’Europa devono essere pronte. Perché il tempo della filosofia è finito. Ora è il tempo della consapevolezza. E delle scelte.

Difesa, l’Italia può e deve giocare un ruolo in Europa. Parola di Volpi

Di Raffaele Volpi

L’Europa è un gigante economico, ma politicamente fragile e privo di una strategia autonoma. L’Italia, per posizione geografica e capacità industriale, ha il potenziale per essere un attore chiave nella costruzione di una politica estera e di difesa comune europea. L’analisi di Raffaele Volpi

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