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Con il loro ultimo lavoro, i fratelli Taviani ci rendono intatta, dalla prospettiva disperante del carcere, la potenza del Giulio Cesare shakespeariano. La parabola di Cesare – uomo amato dal popolo e al vertice di una Repubblica che dopo di lui diverrà Impero, pugnalato a morte dal figlio adottivo – è uno dei miti fondativi della nostra storia nazionale. La narrazione scolastica ci consegna in una sequenza epica le immagini di una via crucis: dai presagi ripetuti e ignorati, fino al corpo esamine, accasciato di fronte alla statua dell’antico avversario; l’apice del dramma è nell’esclamazione – Tu quoque, Brute, fili mi!
 
Se Havelock definì “enciclopedia tribale” i poemi omerici, qui assistiamo a qualcosa di simile: una elencazione quasi canonica dei valori – misto di superstizione, prudenza e legami sociali – che una storia di alterne fortune ha levigato nell’animo “latino”.
Tra questi, l’elemento familiare domina la scena. In una cultura dove l’ammirazione verso i padri si informa nella sopportazione verso i figli, dove il legame di parentela sembra una garanzia di fronte alle imperfezioni del mercato del lavoro, quel rimprovero sentenzia condanna senza appello. E il vocativo (assente nella versione di Svetonio) marchia d’infamia perpetua il solo Bruto, laico Caino.
 
Diversa è la versione di Shakespeare – e sembra mettere a tacere le voci che lo vorrebbero italiano. Cassio, l’intellettuale rancoroso, gli ricorda che già un Bruto levò il coltello contro la tirannide: il nostro appare destinato a compiere ciò che il destino ha già scritto. Il titolo inganna: è Bruto il protagonista, sua la tragedia senza età dello scontro tra il bene comune e gli affetti privati. Che pare risolversi nel sole del Foro, quando placa la folla inferocita esclamando:
Se in questa assemblea c’è qualcuno, un qualche caro amico di Cesare, a lui dico che l’amore di Bruto per Cesare non era inferiore al suo. Se poi quell’amico domanda perché Bruto si è sollevato contro Cesare, questa è la mia risposta: non che amassi Cesare di meno ma che amavo Roma di più. […]
Poiché Cesare mi amava, piango per lui; poiché è stato fortunato, me ne rallegro; poiché è stato valoroso, lo onoro; ma poiché era ambizioso, lo ho ucciso.
 
Bruto arriva a invocare per sé la stessa fine, qualora tradisse Roma – e non fosse finzione, verrebbe da riflettere su come “buon esempio”, tradotto dal latino al padano, perda molto del suo significato. Shakespeare carica il suo personaggio di una tensione fondamentale dell’aristocratica Repubblica romana: l’assoluta prevalenza della comunità di fronte all’individuo. Tensione che arriva a concepire con Catone una storia popolata di tribuni, consoli e censori senza nome, il cui anonimato impedisce che la vicenda nazionale sia ridotta a questione familiare o privata. Bruto, e il suo mondo antico, soccomberanno inevitabilmente quando la complessità del governo richiederà figure capaci di rappresentare col proprio stesso corpo istanze collettive: ma oggi più che mai, siamo costretti a riconoscergli, come già Antonio, l’onore delle armi.
 
 
Giacomo Gabbuti
Studente del Master of Science in Economics all´Università di Roma Tor Vergata, dopo la triennale in Economia Europea nella stessa università ed un Erasmus ad Istanbul. Ha collaborato con il progetto “Cultura dell´Integrità nella Pubblica Amministrazione” della Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione.

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