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La chiave per intendere Qualcosa di scritto di Emanuele Trevi (Ponte alle Grazie, pp. 248 con 16 ill. a colori), un libro che elude qualsiasi classificazione di genere ed è continuamente spiazzante rispetto alle attese del lettore, si trova in un’esclamazione relegata in nota: «Ah, Novecento, quanto mi manchi!».
Del resto, in apertura o quasi, Trevi aveva subito precisato che Pasolini era stato un «perfetto rappresentante dell’età moderna, senza sapere che era uno degli ultimi», nel senso che pensava la letteratura come a «una forma insostituibile di conoscenza del mondo».
 
Petrolio, dunque, – l’opera postuma di PPP, edita solo nel ‘92, che è al centro della riflessione di Trevi –, «una volta riemerso dal fondo del cassetto, sembra provenire non da un’altra epoca, ma da un’altra dimensione». Il libro fu scritto negli ultimi anni della vita di PPP, tra il 1972 e il ‘75 quando morì, e a Trevi appare «un’opera del tardo Novecento, un perfetto esemplare di un’epoca irripetibile di libertà e ricerca in tutti i campi dell’arte», ma c’è «qualcosa di più. La luce che pulsava al suo interno, a saperla percepire, emetteva un messaggio di solitudine, minaccia incombente, stadio terminale dell’esperienza».
 
Ben si capisce perciò la scelta di una forma ibrida, che mescola racconto e saggio: una questione come la palinodia del Moderno non poteva risolversi con una riflessione, se non a prezzo di rivelarsi ideologica, compromettendo la sua pertinenza più attuale.
Il continuo scarto di tono nelle pagine del libro, mescolando gesti, personaggi e luoghi di un’esperienza vissuta – per tutti Laura Betti, evocata con realismo fedele e al tempo stesso crudele: la Pazza – a incontri, letture e analisi testuali, vale a esorcizzare qualsiasi organicità del pensiero, rendendo al tempo stesso palpitanti le emozioni e le speranze di una stagione trascorsa e perduta.
 
Scegliere Petrolio a emblema della disperata vitalità del Moderno è imprevedibile e sconcertante: queste pagine, che l’autore descrive solo come qualcosa di scritto, non sono certo un romanzo, perché la lingua è radicalmente altra e la stessa descrizione di «quello che fa Pasolini» come una sorta di body-art è al tempo stesso pertinente e impropria, giacché nel libro di quella pratica manca l’autenticità dell’evento.
È più affidabile la descrizione di Petrolio come «cronaca di un’iniziazione», «considerata come un metodo di conoscenza della
realtà» che prescinde dai «consueti procedimenti razionali», oppure «un libro sacro, un annuncio, una rivelazione» che produce una visione, un’allucinazione, un sogno rivelatore.
 
Insomma, moderno per PPP si rivela «l’alchimista, che costringe la sua materia a metamorfosi inaudite», o chiunque faccia definitivamente crollare «tutti gli argini tra l’opera e la vita», o ancora il sacerdote di un antico rituale che trafuga il segreto dei Misteri di Eleusi, violandone la sacralità.
Certo questa modernità radicata nella mitologia arcaica, che si muove lungo i bordi del sacro, è assai paradossalmente novecentesca e di quel tempo annuncia piuttosto la fine che la resistenza: Trevi sembra accorgersene, perché sa bene che «all’iniziato non rimane che la morte» e che pertanto PPP «mentre scrive Petrolio, o gira Salò, è andato oltre alla maniera di chi a casa non tornerà più», ma poi improvvisamente si ferma e alza lo sguardo verso l’infinito, o lo abbassa sulla cronaca quotidiana.
 
Bastava, invece, leggere quel che va ripetendo da venticinque anni Giuseppe Zigaina – cfr., tra i suoi libri, almeno Hostia (1995) – e da lì ripartire per rendersi conto che davvero la morte di PPP coincide con la fine della modernità e la rivelazione della sua impossibilità di resistere in un mondo profanato, che solo attraverso un gesto sacrificale potrà rigenerarsi.
Questo gesto terribile e definitivo PPP l’ha pensato, annunciato e poi fatto: «Quello che sta facendo è tutta un’altra cosa – dice Trevi – e nessuno lo capisce», anche se sarebbe ora di cominciare a capirlo.

Fiori di carta

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