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Non è vero, non è giusto che le colpe per lo scoppio di una guerra debbano essere ripartite in parti uguali tra tutti i contendenti. Se sul serio bisogna parificare, secondo un criterio salomonico, le responsabilità di un conflitto, allora non rimane che riscrivere la Storia delle nazioni da cima a fondo, sconfessando le verità acclarate e rivedendo i giudizi condivisi. Altro che revisionismo. Così agendo, andrebbe in scena un ribaltone storiografico più imprevedibile di un giallo di Dario Argento. Roba da far impallidire tutti i teorici della Storia sempre contemporanea o della Storia addirittura più inedita di un libro bianco da riempire.

A seguire il ragionamento sulle responsabilità da redistribuire paritariamente tra i duellanti, verrebbe da concludere che Adolf Hitler (1889-1945) e Winston Churchill (1874-1965) andrebbero messi sullo stesso piano; che gli schiavisti e gli antischiavisti nella guerra civile americana meriterebbero il medesimo verdetto etico e storiografico; che i partigiani italiani e i soldati tedeschi, nella seconda guerra mondiale, avrebbero commesso identiche atrocità; e che i martiri della libertà e i carnefici delle tirannie non si distinguerebbero troppo gli uni dagli altri.

Intendiamoci. A volte si può pure trovare il concorso di colpa prima e dopo l’inizio di uno scontro bellico. Ma quasi mai ciò avviene quando sono in campo le democrazie, che giammai attaccano per prime, semmai sono quasi sempre bersaglio di agguati da parte di autocrazie imperiali e distruttive. Del resto, cosa unisce dittature e totalitarismi vari, di ogni colore, se non l’attivazione costante del sentimento della paura presso i loro popoli? Cosa unisce le autocrazie di ieri e di oggi se non l’individuazione sistematica di un nemico contro cui convogliare l’odio dei cittadini?

I regimi illiberali hanno con la paura un rapporto ambivalente. Incutono paura negli amministrati perché, a loro volta, hanno paura degli amministrati. Tutti i despoti hanno paura di una ribellione popolare, di una rivolta che metta fine al loro strapotere. Di conseguenza anticipano la possibile e probabile insurrezione dei governati chiamandoli a raccolta nel segno della patria in pericolo o di un torto da vendicare.

La sfida tra Israele e Hamas, al di là delle contingenze e dei pretesti momentanei, non esula, come la guerra Russia-Ucraina, da questo schema: da un lato una democrazia che cerca di difendersi dall’assedio e dalle incursioni di un nemico irriducibile; dall’altro un agglomerato di potere, teocratico e feudale, terroristico e spietato (all’interno e all’esterno), che punta a schiacciare un Paese libero indottrinando, asservendo e mobilitando la propria popolazione.

Come si possano mettere alla pari le ragioni e le colpe degli uni con le ragioni e le colpe degli altri, riesce sempre più arduo spiegarlo e comprenderlo. Eppure è quanto si sente dire in alcune trasmissioni tv, dove spesso si sorvola sui resoconti più attendibili della cronaca quotidiana. Nulla da fare. Il pregiudizio ideologico, ostile alle liberaldemocrazie e ai suoi valori, è così radicato che abbondano le opinioni prive di legami con la realtà. Opinioni quasi tutte relegate a variabili indipendenti rispetto alla sequenza dei fatti.

Il sistema informativo, televisivo in particolare, tutto è tranne che al di sopra di ogni sospetto. L’imperativo categorico di fare share, di salire nell’auditel, non è una buona giustificazione per fare da grancassa alle tesi più liberticide che si trovano in commercio. Né vale l’obiezione che occorre dare spazio a chicchessia; che in guerra non ci sono buoni e cattivi; e che la complessità degli eventi esige che il microfono sia concesso a tutti i protagonisti di una resa dei conti.

Seguendo il filo di questo capzioso ragionamento, oggi in tv si dovrebbe dare un cospicuo spazio a un redivivo Hitler, qualora si riproponesse lo scenario di 80 anni addietro. Oppure, sempre in ossequio alla par condicio mediatica, dovremmo dare a mafiosi e inquirenti, a collusi e investigatori gli stessi tempi televisivi per spiegare le loro rispettive posizioni e/o strategie. Per dire, e neppure per essere paradossali, a proposito di Salvatore Riina (1930-2017) e Giovanni Falcone (1939-1992), Bernardo Provenzano (1933-2016) e Paolo Borsellino (1940-1992): anch’essi erano in guerra, ergo i boss avrebbero dovuto o potuto pretendere sui media la stessa visibilità riconosciuta ai due magistrati che davano loro la caccia.

Il relativismo è il male dei nostri tempi, sovente nascosto sotto l’ombrello concettuale dell’inclusione (malintesa) e della comprensione (obbligata). Abbonda il relativismo politico che non coglie differenze tra modelli assolutistici e ordinamenti democratici. Dilaga il relativismo etico che non fa distinzioni tra condotte benefiche e comportamenti malefici. Infuria il relativismo scolastico che ignora meriti e demeriti di docenti e discenti. Avanza il relativismo culturale che finisce per equiparare culture misogine/omofobe e culture anti-discriminatorie. Si rafforza il relativismo religioso che accorcia le distanze tra fedi improntate a princìpi di eguaglianza e tolleranza tra gli esseri umani e fedi caratterizzate dal predominio teocratico di pochi eletti su larghi strati della popolazione. Imperversa, ora, il relativismo mediatico che confonde, o scambia i ruoli di aggrediti e aggressori, nel nome di un’ipocrita equidistanza o equivicinanza. Una foglia di fico tesa a coprire un malcelato, reale, tifo per l’assalitore, solitamente bravo a camuffarsi da assalito. Vedi, anche, il caso Ucraina.

Il relativismo mediatico non è spuntato ieri. Il primo a intuirne i pericoli (sovversione della verità, doppiopesismo automatico, ideologismo assoluto, pulsioni democratiche a intermittenza) era stato George Orwell (1903-1950), l’autore de “La fattoria degli animali”. Successivamente, tutta la narrativa distopica ne metterà in evidenza la portata distorsiva (sempre del relativismo mediatico, si capisce) per la corretta informazione.

Oggi, però, le conseguenze di un relativismo mediatico ancora più penetrante, a causa dell’egemonia dei social e dell’ossessione internettiana, rischiano di risultare ancora più devastanti rispetto al passato, dato che, nel mondo, le democrazie stanno regredendo di numero e di peso e le coalizioni dei Paesi autoritari stanno, all’opposto, crescendo di numero e di peso. E siccome le guerre si vincono innanzitutto sul fronte della comunicazione, un cordone sanitario per isolare o restringere l’epidemia di fake news scatenata dai nemici dell’Occidente democratico non guasterebbe. Non foss’altro per ricordare che democrazie e dittature pari non sono.

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