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Per parlare di una nuova Europa, del suo futuro, bisogna partire dal suo presente. Un presente purtroppo dominato dalla crisi economica e finanziaria che sta portando a nuovi interrogativi. Cosa succederà al progetto europeo? Lo rallenterà, lo accelererà, lo incrinerà, lo devierà verso un nuovo corso? Usciremo dalla crisi con più o con meno Europa? Nel complesso, la risposta dell’Europa alla crisi ha mostrato punti di forza da valorizzare, ma ha anche rivelato limiti evidenti da superare. Il Consiglio europeo di dicembre ha selezionato i mattoni su cui costruire il futuro dell’Unione.
 
Dopo il conseguimento di obiettivi ambiziosi – penso agli anni del grande allargamento, all’introduzione della moneta unica e alla firma del trattato di Lisbona – l’Europa meritava anche questa volta un nuovo scatto comune. Invece, un summit ricco di aspettative ha ceduto a più forti tensioni verso i singoli problemi nazionali, portando, purtroppo, all’esito di un bicchiere mezzo vuoto, per il fallito tentativo di incassare una vittoria a 27 e ad un bicchiere mezzo pieno, per quella parte di accordo a 17+9 che darà, invece, un potere molto importante alla Bce. Una soluzione a metà, quindi, in sintonia con quell’approccio ancora troppo miope verso la causa comunitaria.
 
La crisi economica e i suo effetti hanno preso in ostaggio la dimensione delle politiche nazionali al punto da ridare forza ad uno scetticismo che – pur di isolarsi nel proprio orticello – rischia di oscurare la visione di futuro dell’Europa.
L’Europa è futuro: perché al di là delle emergenze nazionali, al di là del dissenso britannico – che, come ha detto il presidente Napolitano, va certamente affrontato – l’unificazione del continente europeo e la continua richiesta di Paesi terzi a diventare parte della nostra famiglia restano la prova del dinamismo di una Ue che continua a muoversi e a progredire.
 
La sovranità nazionale è certamente una pietra miliare, ma non va usata contro l’Europa perché, oggi, rappresenterebbe un danno all’interesse di ogni singolo Paese ad uscire dalla crisi e a favorire opportunità per le prossime generazioni. Ciascun Paese, al contrario, potrà, attraverso un governo politico comune dell’Europa, trarre stabilità e sicurezza che solo una solida unione autorevole nel mondo può opporre alla cinica immoralità della speculazione internazionale.
Di fronte alle più recenti situazioni da sabbie mobili la missione della nuova Europa dovrebbe essere innanzitutto quella di contribuire a sanare alcune fratture. In primis riscoprendo, in chiave operativa, le profonde motivazioni morali ed ideali che hanno ispirato il progetto di integrazione europea, aggiornandole alla luce delle nuove sfide che abbiamo di fronte, ricordando quale sarebbe stato, per tutti noi, il costo dell’isolamento e di una “non Europa”.
 
Recuperare l’orgoglio del progetto europeo significa tornare a presentarsi al resto del mondo come un interlocutore più forte ed un modello da imitare. Negli ultimi anni, l’Unione ha visto ridursi la sua capacità di seduzione verso altri Paesi e altre regioni del mondo. I sentimenti verso Bruxelles, oggi sempre più tiepidi, da parte delle opinioni pubbliche dei Paesi candidati all’Unione, e lo spauracchio di un G2, Stati Uniti-Cina, come paradigma di una nuova governance internazionale sono lì a ricordarcelo. Va inoltre tenuto presente che il baricentro del potere internazionale si sta spostando dall’Atlantico al Pacifico, mentre il G20 sembra conquistare più spazio e peso rispetto al G8. In questo contesto, se l’Europa desidera un posto di rilievo sullo scenario internazionale, deve essere più coesa e mostrarsi in grado di parlare con una voce sola.
 
Per costruire un’Europa ambiziosa, sostenuta da una forte identità collettiva, non basta più che l’Unione si avvicini ai suoi cittadini. Deve valere anche il percorso inverso. I cittadini europei devono cominciare ad avvicinarsi all’Europa, partecipando direttamente alle sue dinamiche. Vorrebbe dire che l’Unione comincia ad essere percepita come uno spazio politico comune, piuttosto che come una entità esterna. L’informazione ai cittadini e il loro coinvolgimento, il ruolo dei Parlamenti, il dibattito trasparente. Processo democratico per vincere il consenso su più Europa e meno egoismo nazionale.
 
Di recente il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, commentando le misure europee per uscire dalla crisi economica, ha affermato che “l’Europa è un continente ricco e non credo che possa avere problemi per uscire da questa situazione di difficoltà. L’importante è che i leader europei prendano delle decisioni importanti e forse anche un po’ audaci. E che intorno a loro si trovi la volontà politica per attuarle”. Una volontà politica comune, appunto: quell’ingrediente che ancora manca.
L’Europa è un modello di multilateralismo efficace. Un esempio fruttuoso di cooperazione tra gli Stati, lo strumento per definire interessi e obiettivi comuni. Ha dato prova di essere un efficiente norm-setter regolamentando molti settori come il commercio, la competitività, l’ambiente, i diritti umani. Ha sviluppato un “modello sociale europeo” che è stato in grado di garantire un alto livello di coesione. Un sistema basato non solo sulle garanzie dello Stato di diritto, le libertà individuali, la democrazia, le regole del mercato, ma anche sulla solidarietà e il dialogo sociale. Un modello che ha mostrato la sua validità proprio in relazione alla grave crisi economico-finanziaria che stiamo sperimentando.
 
Tornando alla domanda iniziale, non ho alcun dubbio che per uscire dalla crisi serva più Europa. L’Europa che immaginava Schuman non era l’Europa dei compromessi al ribasso, delle divisioni, dell’indecisionismo e dell’accanimento burocratico. Il suo progetto di integrazione nasceva da una visione etica radicata nel ricordo degli orrori della guerra e mirava ad un punto di sintesi più alto e ambizioso. Dobbiamo riscoprire quella spinta propulsiva e quello slancio ideale. Per uscire dalla crisi non basterà un aggiustamento tecnocratico, un ennesimo summit o un escamotage giuridico, ma sarà necessario rapportarsi in modo diverso all’idea di Europa, attraverso un forte richiamo dei leader europei ad una visione ambiziosa, altruistica e strategica del futuro del nostro continente.
 
Alcide De Gasperi diceva che “solo se uniti saremo più forti”. L’auspicio di questo tipo di sensibilizzazione è che si possa essere uniti non solo il 9 maggio o quando i padri fondatori ce lo ricordano attraverso i loro racconti e testimonianze. Il nostro scopo deve essere quello di farci portavoce e divulgatori di un sentimento che ci porti tutti i giorni ad essere “fratelli d’Europa”, cosa che i nostri padri hanno sentito e per questo ideale combattuto.

Un nuovo scatto comune

Per parlare di una nuova Europa, del suo futuro, bisogna partire dal suo presente. Un presente purtroppo dominato dalla crisi economica e finanziaria che sta portando a nuovi interrogativi. Cosa succederà al progetto europeo? Lo rallenterà, lo accelererà, lo incrinerà, lo devierà verso un nuovo corso? Usciremo dalla crisi con più o con meno Europa? Nel complesso, la risposta dell’Europa…

Se la formica diventa cicala

Perché si parla di rottura dell’area dell’euro? Un passo indietro. I Paesi che vi aderirono lo fecero per diventare più simili. I tedeschi per divenire più italiani e gli italiani più tedeschi? Esatto. E come? Fissando tassi di cambio irrevocabilmente fissi tra i Paesi. Vale la pena spiegare meglio. Immaginate che nel 1998 Germania ed Italia potessero vendere una lavatrice…

L'euro in mezzo al guado

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Il fantasma di Francoforte si chiama Reichsbank

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