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Sono 900 i milioni di euro investiti dall’Unione Europea per due gigafactory in Polonia e Ungheria allo scopo di produrre batterie elettriche.

Fin qui tutto bene, perché potrebbe sembrare una scelta saggia di politica industriale, indirizzata a rendere l’Europa capace, quantomeno, di produrre le batterie di cui ha bisogno.

Grazie a uno studio di T&E però, scopriamo che le cose stanno in modo assai diverso e molto meno favorevole di quanto potrebbe apparire ad una lettura superficiale.

Dice il rapporto: “Le risorse economiche per finanziare le gigafactory in Ungheria e Polonia provengono per lo più dal Fondo europeo per la ripresa post-Covid. Tuttavia, in entrambi gli impianti sono state riscontrate violazioni della Direttiva Ue sulle Emissioni Industriali a causa del superamento dei limiti previsti in atmosfera per il NMP, una sostanza chimica tossica utilizzata nella produzione di catodi”. Le anomalie non finiscono qui in verità, ma ci limitiamo a ricordare questa perché dobbiamo volgere lo sguardo anche altri grandi impianti, direttamente collegati ai campioni europei dell’industria automobilistica.

Lo studio ha inoltre riscontrato “l’assenza di regole sul trasferimento tecnologico nei casi degli impianti Volkswagen-Gotion in Germania e CATL-Stellantis in Spagna. Nell’impianto di Gotion – di cui Volkswagen è il maggior azionista, con il 26.47% delle quote a fronte di un investimento di 1.1 miliardo di euro – è emerso un ruolo marginale del gruppo tedesco nella produzione di batterie. La partnership, a detta di molti degli esperti intervistati per lo studio, si ridurrebbe a un mero accordo di fornitura di batterie LFP (litio-ferro-fosfato), senza comportare ulteriore vantaggio tecnologico e industriale per il gruppo tedesco. Nessun trasferimento a lungo termine di tecnologia e competenze neppure in Spagna, dove la joint venture tra Stellantis e il colosso cinese CATL per la produzione di batterie LFP ha comunque beneficiato di quasi 300 milioni di euro di aiuti pubblici. Il problema principale, secondo tutti gli esperti intervistati per lo studio, è che in Europa non esiste un quadro normativo coerente per affrontare la competizione delle aziende cinesi. Né il quadro sugli aiuti di Stato (il principale schema di sussidi dell’Ue), né altri fondi o regolamenti europei, né le normative a livello nazionale prevedono condizioni di natura sociale, industriale o di altro tipo (ad esempio, clausole su percentuali di beni, servizi o manodopera locale). Al contrario, in Cina (e, dopo l’IRA statunitense e la sua normativa sui “Foreign Entity of Concern”, anche negli Usa) le imprese domestiche detengono spesso quote di maggioranza nelle joint venture, con regole precise su proprietà intellettuale, trasferimento tecnologico, assunzione di personale locale e ricerca e sviluppo”.

Allora qui dobbiamo capirci bene, perché in ballo c’è la natura stessa delle economie del Vecchio continente.

Sulle batterie siamo talmente a rimorchio della Cina che siamo diventati poco più che gestori degli assemblaggi, peraltro con poderosi finanziamenti pubblici di sostegno.

Questo significa essere “colonia” allo stato puro nell’economia moderna, perché se tu metti insieme pezzi che altri hanno progettato e costruito il tuo valore aggiunto è marginale sotto ogni punto di vista.

Cos’altro serve per capire che dobbiamo cambiare rotta e che dobbiamo farlo alla velocità della luce?

Siamo già quasi una colonia cinese. E, a breve, sparirà il "quasi"

Sulle batterie siamo a rimorchio della Cina. Se tu metti insieme pezzi che altri hanno progettato e costruito il tuo valore aggiunto è marginale sotto ogni punto di vista. Cos’altro serve per capire che dobbiamo cambiare rotta e che dobbiamo farlo alla velocità della luce? La riflessione di Roberto Arditti

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