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L’antagonismo esemplarmente novecentesco tra la scrittura e la vita nell’ultimo romanzo di Mauro Covacich, A nome tuo (Einaudi, pp. 344, euro 22,00) si capovolge nel suo paradossale contrario: se allora era la prima a inseguire la seconda perché ne restasse traccia sulla pagina della letteratura, ora è la vita che, ridotta alla fatua esistenza delle parole, rivuole il suo ruolo di protagonista e pretende di svolgersi senza infingimenti e senz’altro senso allusivo o metaforico, e detta, dunque, a chi scrive un nuovo libro che letteralmente si mangia tutti gli altri che lo hanno proceduto per mutarne il significato e lo scopo, per dire finalmente la sua verità esistenziale, e finire così a misurarsi con quella morte dei sensi e dell’intelligenza che solo in parte anticipa quell’altra definitiva del corpo e dei suoi poveri organi sopravvissuti alla stessa coscienza.
 
Come ben si capisce è la verità che scolorisce paziente e abrasiva qualsiasi menzogna, ogni invenzione, e cancella la trama del disegno che la storia si affannava a svelare volando ben più in alto che lungo le strade della realtà e per questo tradendo la sequenza dei fatti, l’identità delle persone, l’autenticità dei nomi, dei giorni, dei luoghi.
La letteratura non è semplice rispecchiamento della vita, sua copia fedele; anzi, figlia della memoria, la vita essa cerca e trova nello spazio rarefatto delle parole, al più di qualche immagine ormai sbiadita dal tempo, e poi la evoca fantasticamente fissandola per sempre nei segni d’inchiostro che imbrattano la pagina bianca: così, scritta, la vita, o meglio il suo doppio, acquista senso e trasparenza, trova un inizio e una fine, viene dominata e posseduta, persino compresa.
Il prezzo è evidente: sulla pagina tra la scrittura e la vita si allarga il passo che da sempre separa le parole e le cose. Insomma tanto più ricco e potente è il suo senso, tanto più fragile ed effimero è il riscontro con il vissuto: la strada del mito corre veloce nella direzione opposta a quella della realtà.
 
Così era successo anche nei romanzi di Covacich luminosamente metaforici e persino profetici – basti per tutti A perdifiato (2003), ma anche Fiona (2005) –, poi la macchina s’era inceppata: in Prima di sparire (2008) i fatti e le cose avevano ripreso il sopravvento, tanto che sembravano acquistare forma – e parola – nel momento stesso in cui accadevano, senza che ci fosse neppure il tempo di raccontarli; al contrario, in Vi perdono di Angela del Fabbro (2009) era l’autore ad essere un’invenzione – uno pseudonimo di Covacich – tradendo sin dal principio qualsiasi fedeltà all’esperienza.
Verità e menzogna, vita e racconto, realtà e fantasia ecc. sono due facce della stessa medaglia, inseparabili e al tempo stesso alternative; irriducibili in ogni caso a unità.
 
Covacich in A nome tuo prova a rimettere in ordine in questo suo universo esploso, si sforza di far combaciare i pezzi del suo mondo in frantumi, e racconta paziente il suo rapporto con l’immaginaria Angela del Fabbro, parto della sua stessa immaginazione, quindi sorella di quell’altra figlia adottiva che nel primo romanzo della trilogia era solo attesa e nel secondo invece esplicitamente protagonista – Fiona –, fino a riappropriarsi del suo stesso Vi perdono, che si trasforma nella seconda parte di quest’ultimo romanzo.
Eppure, nonostante quest’impegno determinato e rigoroso uno scherzo finale, un improvviso e feroce colpo di vento, rimescola nuovamente le carte e confonde irrimediabilmente vero e falso, vita e letteratura: la lettera della spettatrice croata che ha assistito delusa alla videoinstallazione L’umiliazione delle stelle – lo stesso titolo della prima parte di A nome tuo – è in proposito perentoria: «Lei ha un segreto che consiste precisamente nell’inganno, … lei è quello che fa,… mentendo ha detto la verità».
Il gioco, dunque, ricomincia da capo, come «la fiaba di sior Intento, che la dura molto tempo e che mai no se destriga. Vostu che te la conta o vostu che te la diga?».

Fiori di carta di luglio 2011

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Inchiostri di luglio 2011

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