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Risale al lontano 1931 il rapporto stretto tra il Giappone e l’energia atomica. Un rapporto d’amore e d’odio, come insegna la storia, che prende avvio con le ricerche del professor Yoshio Nishina, amico di Niels Bohr e in contatto con Albert Einstein, un vero e proprio appassionato della “fisica dell’alta energia”, come veniva chiamata a quell’epoca.

Lo stesso Nishina temeva le ricerche americane e sapeva sin da allora che, in perfetto stile taoista, l’energia nucleare può avere una faccia positiva e una negativa. Purtroppo, i timori dello scienziato nipponico erano fondati e le due bombe di Hiroshima e Nagasaki conclusero nel peggiore dei modi una guerra già finita e già perduta. In qualsiasi altro paese del mondo, dopo il dolore e il tragico lutto delle bombe atomiche, la ricerca sul nucleare si sarebbe interrotta bruscamente.

Ma il Giappone non è come tutti gli altri paesi del mondo ed è unico nel suo genere. Così, già nel 1954, il neonato parlamento stanzia 230 milioni di yen per la ricerca sul nucleare. Due anni dopo, nel 1956, viene inaugurata la prima Commissione per l’Energia Atomica e vengono di seguito aperte una serie di agenzie, tra le quali la JAERI (JapanAtomic Energy Research Insitute), che valutano l’idea di costruire centrali nucleari sul territorio giapponese. La prima centrale viene inaugurata nel 1966 ed il reattore viene importato dalla Gran Bretagna.

Il Giappone, sin dalla seconda guerra mondiale, ha sempre posto grande attenzione al suo atavico problema: la dipendenza energetica dagli altri paesi del mondo e, soprattutto, la difficoltà di comprare energia altrove, vista la sua peculiarità geografica ed essendo una grande isola, dalle coste frastagliate e composta da decine e decine di piccoli isolotti di fatto difficilmente raggiungibili. Il nucleare è stata la soluzione migliore e su questa scelta il Giappone ha scommesso per il futuro. La scommessa è stata ampiamente vinta e oggi l’impero del Sol levante è il terzo produttore di energia atomica nel mondo, dopo Stati uniti e Francia, e ha sul suo territorio 52 centrali operative, 3 in costruzione, 8 già pianificate e una centrale non commerciale che opera unicamente nell’ambito della ricerca.

Gli incidenti nucleari nella storia del Giappone sono stati ben pochi, se paragonati alla vastità dell’investimento statale e al numero di centrali sparse su tutta l’isola. Nove incidenti dal 1966, dei quali solo uno, quello del 1999 nella centrale di Tokaimura, è costato la vita a 3 dipendenti e fu causato da un errore umano. Recentemente, i tiggì ci hanno mostrato immagini di centrali nucleari sospese sul mare con bagnanti che tranquillamente nuotavano a poca distanza dai reattori. Un paese di folli? No, molto più semplicemente un paese attento e di buon senso.

L’assoluta priorità nella gestione delle centrali atomiche e della ricerca nucleare in Giappone è sempre stata la sicurezza. I due incidenti recenti che hanno coinvolto le centrali della Tepco (la Tokyo Electric Power Company), sono stati in realtà incendi di fili elettrici, dovuti alle recenti scosse sismiche, ma non vi è stata alcuna fuga radioattiva, in quanto non si è generata nessuna criticità nel sistema. L’incidente del 1999 scosse profondamente l’opinione pubblica, questo è vero. Tanto che lo Stato impose alla Tepco (proprietaria della centrale in questione) di chiudere le sue 17 centrali in tutto il Giappone per revisionarle nell’ottica della sicurezza nazionale. Alla fine del 2003 la Tepco riaprì solo 7 delle sue 17 piattaforme e ad oggi è riuscita a completare la messa in sicurezza delle altre dieci restanti che sono normalmente in funzione.

Lo scandalo della Tepco è stato affrontato in trasparenza e rigore, vista la centralità del problema, sia dal punto di vista economico che da quello cruciale della salute dei cittadini giapponesi. Il Giappone non può prescindere dal nucleare, laddove sarebbe costretto ad “importare” l’80% dell’energia che gli è necessaria per industrie e privati. Comprare l’energia dagli altri paesi manderebbe l’impero nipponico in bancarotta e lo renderebbe facile ostaggio politico dei paesi limitrofi e medio-orientali. Per questo, dopo Hiroshima e Nagasaki e, quindi, dopo aver provato sulla propria pelle l’atrocità devastante della potenza atomica, il Giappone ha sviluppato il lato “buono” del nucleare, vincendo anche le resistenze culturali dei suoi cittadini, inevitabilmente scossi dall’esperienza delle due bombe.

 Forse è stata proprio questa la scommessa più grande che oggi il Giappone si trova a riscuotere: il lavorare sulla cultura dell’opinione pubblica per convincerla che il nucleare è una risorsa per il paese, una risorsa centrale, e – al contempo – è una risorsa anche per l’ambiente, dal momento che permette la riduzione delle emissioni nell’ottica della strada segnata dallo stesso Protocollo di Kyoto.

In fondo, è la stessa battaglia che ci troviamo oggi a combattere qui da noi, come accennava Umberto Veronesi nei giorni scorsi; una battaglia culturale che spezzi le credenze e le convinzioni indotte su un nucleare distruttivo, e che riapra il dibattito e la strada della ricerca anche in Italia. La nostra situazione energetica è molto simile a quella del Giappone del dopoguerra, così come la nostra geografia. La chiusura delle centrali nel 1987, oggi comincia ad essere rimpianta. Guardare all’esempio del Giappone potrebbe forse darci il coraggio necessario per aprire nuovamente quella possibilità e risolvere, di fatto, la nostra totale dipendenza energetica dagli altri paesi, nell’assoluta sicurezza sia per i cittadini che per l’ambiente. Il Giappone dimostra che si può.

Il Riformista, 24 settembre del 2007

Il Giappone non può fare a meno del lato buono dell'atomo

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