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Gli italiani non saranno un popolo di poeti, di artisti, di eroi, di santi, di pensatori, di scienziati, di navigatori, di trasmigratori, come ebbe a esclamare Benito Mussolini (1883-1945) in un discorso del 1935 contro la comunità internazionale che aveva appena condannato l’Italia per lo sciagurato agguato all’Abissinia, ma, molto più realisticamente e prosaicamente, gli italiani sono un popolo di finti poveri e finti ricchi. Infatti. A leggere le cifre delle loro denunce dei redditi, viene da pensare che gli abitanti del Belpaese se la passino peggio di quei “cafoni all’inferno” raccontati dall’acuto, originale scrittore pugliese Tommaso Fiore (1884-1973). Ma è sufficiente uscire di casa, osservare i fiumi delle auto dirette ogni fine settimana verso i luoghi di vacanza, è sufficiente notare l’alto numero di super-car in circolazione, leggere i dati-record sulla diffusione dei cellulari, sulle spese voluttuarie in genere, sui soldi depositati in banca e investiti (sic) nei centri-scommesse, per prendere atto che la realtà italiana e la sua relativa descrizione non coincidono affatto. Anzi, sono più distanti, tra loro, di Marte e Venere.

Si ripete, con toni sempre più allarmistici, che mai come oggi le disuguaglianze siano in aumento e che la povertà desti spavento. Certo. I numeri dicono questo. Ma se i numeri corrispondessero sul serio alla verità, ciò significherebbe che più della metà della Penisola vive al di sotto degli indici di miseria visto che è dispensata dagli obblighi fiscali. La qual cosa, già da un pezzo, avrebbe acceso la miccia per rivolte e rivoluzioni che manco all’epoca di Spartaco (109-71 avanti Cristo).  Per fortuna così non è. Per fortuna la gioia di vivere bene nel Belpaese non è solo l’esclusiva di una fortunata agiata minoranza, ma è anche l’appannaggio di vasti strati della popolazione, come attesta l’elevata percentuale di proprietari di abitazioni.

E allora? Da dove sorge la contraddizione tra le entrate reddituali ufficiali e le entrate reddituali effettive? Sorge dal fatto che, per molti italiani, il secondo lavoro, ovviamente sommerso, sta a cuore e rende assai più del primo. Sì, per molti doppiolavoristi l’occupazione primaria, quella a cui riservano e riversano la più tenace dedizione, è proprio la secondaria. La prima occupazione è solo il “posto”, sovente il “posto fisso” magistralmente celebrato e (s)mitizzato da Checco Zalone in uno tra i suoi film più felici e graffianti. Il lavoro-lavoro, quello che non a caso in Italia viene declamato come “fatica”, è un’altra cosa.

E dal momento che i doppiolavoristi non sono una piccola comitiva di clandestini sfuggiti ai radar del fisco, semmai costituiscono una Razza Furbona composta da milioni di persone, ecco spiegata la contraddizione, più visibile di un grattacielo, tra ricchezza dichiarata, ricchezza ricavata e ricchezza posseduta.

Non si contano, in Italia, i proprietari di vetture pagate poco meno di un appartamento, ma che, per il fisco meritano un’esenzione dopo l’altra o una lista di bonus più lunga di un’enciclopedia. Perfida provocazione: forse sarebbe opportuno che questi finti poveri su quattroruote di lusso, ad ogni controllo stradale, fossero costretti a esibire la loro denuncia dei redditi. Questa misura potrebbe indurli a ridurre la propria propensione all’infedeltà fiscale, per non rischiare l’accensione di un faro su di loro, da parte della Gdf, in caso di difformità tra entrate ufficiali e costi reali per la manutenzione di una fuoriserie. Idem per l’acquisto di case da parte di famiglie e singoli non percettori di introiti tali da permettere di racimolare la somma necessaria per l’investimento immobiliare. Certo, si potrebbe obiettare che a volte vengono in soccorso le eredità rivenienti da nonni e genitori. Tutti facoltosi costoro? Tanto numerosi sono gli ereditieri italiani? Se così fosse, forse non sarebbe più il caso di destinare molti quattrini allo stato sociale. Il welfare e le proprietà di famiglia basterebbero e avanzerebbero. Le disuguaglianze sarebbero appianate alla radice, ad ogni successione testamentaria, ad ogni traslazione patrimoniale.

Ora. Che non siano pochi, in Italia, i defunti in grado di aiutare, o addirittura “stipendiare”, figli adulti e nipoti grazie a lasciti e risparmi vari, è notorio. Che oggi, appunto, siano i soldi e i beni ricevuti dagli anziani, specie da quelli saliti in cielo, a garantire e alimentare il costoso treno di vita delle nuove generazioni, è risaputo. Ma il grosso delle entrate extra, in parecchie residenze, proviene quasi esclusivamente dalle attività in nero, i cui rendimenti sono più robusti e strutturali di una vincita media alla lotteria: ti consentono di vivere da ricco e di non perdere gli aiuti pubblici destinati a chi risulta (risulta) per lo Stato più indigente di un barbone. Aiuti pubblici di ogni genere: Irpef più bassa, agevolazioni per il nucleo familiare, tariffe ridotte, sussidi a volontà, bonus a getto continuo. Insomma, non c’è paragone: meglio sembrare vero povero, ma essere vero ricco che risultare finto ricco, ma essere vero povero, avrebbe detto la buonanima del musicista Max Catalano (1936-2013), trasformato da Renzo Arbore in “re dell’ovvio e delle banalità” in Quelli della notte, tele-show cult di quasi 40 anni fa.

I finti ricchi, i kulaki da 70mila euro lordi (lordi), sono la quintessenza della categoria colpita e affondata da questa beffa continua, smascherata spesso negli articoli, nei libri (un titolo su tutti: “Scomode verità”) dell’economista Alberto Brambilla. I finti ricchi pagano un’Irpef spropositata, non ricevono la minima agevolazione per sé e per la famiglia; diversamente dagli altri assegni, le loro pensioni si indicizzano al rallentatore nei periodi inflattivi; sempre i finti ricchi fanno collezione, a proprio danno, di addizionali di ogni tipo; vengono additati a privilegiati da spremere come limoni; sono liquidati alla stregua di sfruttatori del popolo dalla politica e dalla pubblicistica più demagogiche; pagano tasse scolastiche più alte per i propri figli mentre i più danarosi doppiolavoristi ed evasori, quasi nullatenenti, possono contare su provvidenziali, e beffarde, franchigie da parte dello Stato; sono segnalati come simboli da combattere nel nome dell’uguaglianza sociale; sono i bersagli per antonomasia dei progetti di redistribuzione della ricchezza, a cui tendono pressoché tutte le sigle politiche.

Per concludere alla Catalano: meglio essere finto povero che finto ricco. Il primo troverà al suo fianco difensori e sostegni vari. Il secondo si ritroverà, di fronte, detrattori e lacci vari. Il primo agirà nell’illegalità, ma passerà per contributore immacolato. Il secondo agirà nella legalità, ma passerà per frodatore matricolato. Il primo fruirà di tutti i servizi e benefit pubblici dello Stato-mamma senza aver mai scucito un centesimo. Il secondo, con le super-tasse, finanzierà le prestazioni pubbliche per tutti (evasori in primis), ma pagherà, se gli va bene, un supplemento per usufruirne in prima persona.

Sarebbe giunta l’ora di porre rimedio a questa socio-patologia paradossale, congeniale ai veri ricchi trasfigurati in finti poveri. Ma il numero dei contribuenti onesti o impossibilitati a nascondere al fisco i guadagni collaterali è così esiguo, cioè così marginale sul piano elettorale, da scoraggiare qualsiasi provvedimento correttivo in materia. Meglio continuare nel gioco delle parti, meglio, all’occorrenza, continuare a inveire contro l’evasione fiscale senza fare nulla per fermarla e/o per eliminarne le cause: le distorsioni di un sistema che penalizza sempre gli emersi e premia sempre i sommersi, ossia quella Razza Predona che prospera sulla Razza Virtuona.

 

Finti poveri e finti ricchi nella fiscalità all’italiana secondo De Tomaso

Le cifre ufficiali sul tasso di povertà sono smentite dal cospicuo tenore di vita di larghi strati della popolazione. Il secondo lavoro sta a cuore e rende più del primo. Sarebbe giunta l’ora di porre rimedio a questa socio-patologia paradossale. Il commento di Giuseppe De Tomaso

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