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Nel dicembre 2006 il presidente messicano Felipe Calderón si mise la divisa militare e dichiarò guerra a tutto campo alla droga, ordinando l’invio dell’esercito sulle strade e autostrade e nei villaggi del Messico. Allora Calderón ricevette ampio sostegno, sia dall’interno che dall’estero, per quella che era vista come una decisione coraggiosa, largamente dovuta e necessaria. Risultati tangibili, si riteneva, sarebbero arrivati presto. Inoltre, l’amministrazione Bush promise un rapido sostegno – attraverso la cosiddetta “Iniziativa di Mérida”, firmata nel febbraio 2007 – e i sondaggi mostravano che Calderón, con una sola mossa, si era buttato alle spalle le questioni aperte dalla sua contestata e striminzita vittoria elettorale, ottenendo la fiducia della popolazione messicana. Ma oggi le cose appaiono molto diverse.
 
Una vittoria impossibile
Ad un recente dibattito, cui erano presenti tra gli altri Fareed Zakaria di Newsweek e Cnn e Asa Hutchison (ex capo della Dea), la domanda era: la guerra del Messico alla droga è responsabilità degli Usa? Io feci presente che né il Messico né gli Usa erano da accusare; solo Calderón ne portava il peso. Proprio come l’invasione dell’Iraq da parte di Bush, quella del Messico alla droga è stata una “guerra per scelta”. È stata una guerra che Calderón non avrebbe dovuto dichiarare, che non si può vincere, e che sta danneggiando enormemente il Messico. Oggi un numero crescente di messicani concorda con questa opinione. La guerra prosegue e non si vedono risultati positivi, mentre la violenza nel Paese sta montando.
Credo che Calderón abbia dichiarato questa guerra perché sentiva la necessità di legittimarsi davanti al popolo messicano, visti i dubbi che circondavano la sua vittoria alle elezioni presidenziali del 2006 – dubbi che i suoi sostenitori, tra cui il sottoscritto, non hanno mai condiviso. Inoltre credo sia una guerra che non si può vincere perché non segue i principi della Dottrina Powell elaborata 18 anni fa da Colin Powell, allora capo di Stato maggiore della difesa, in relazione alla prima guerra del Golfo. Powell elencò quattro condizioni che devono essere soddisfatte per avere successo in un’operazione militare. Una è il dispiegamento di una forza soverchiante, ciò che manca alle forze armate messicane. Un’altra è una chiara definizione della vittoria, che non si può mai dare in una “guerra alla droga” (espressione usata per la prima volta da Richard Nixon alla fine degli anni ‘60). La terza condizione era una exit strategy fin dall’inizio anche questa assente, dal momento che Calderón non può né ritirarsi sconfitto nel suo stesso Paese, né ritirarsi e dichiarare la vittoria. Egli ancora ha il sostegno dell’opinione pubblica – la quarta condizione di Powell – ma sta cominciando a perderlo.
 
Devastanti effetti collaterali
Negli ultimi tre anni, più di 15mila messicani sono morti nella guerra alla droga. Human rights watch, Amnesty international e il Rapporto del Consiglio per i diritti umani delle Nazioni unite hanno tutti documentato, con maggiore o minore precisione e dovizia di prove, il proliferare degli abusi di potere e l’assenza di un sistema di controllo sugli stessi. Delle oltre 220mila persone arrestate per reati di droga da quando Calderón è salito al potere, tre quarti sono state rilasciate. Solo il 5% delle restanti 60mila sono state processate e condannate. Nel frattempo, le superfici destinate alla produzione di papavero da oppio e quelle per la coltivazione della marijuana sono aumentate, secondo il governo Usa, di rispettivamente 6900 e 8900 ettari. La restrizione dei flussi di cocaina esportata dal Sudamerica agli Stati Uniti ha prodotto solamente una riduzione dei prezzi al consumo, saliti durante il 2008 ma stabilizzatisi nel 2009 a livelli molto inferiori rispetto ai massimi storici degli anni ‘90. Secondo il rapporto del governo statunitense sulle strategie di controllo internazionale dei narcotici, i sequestri di oppio, eroina e marijuana sono diminuiti da quando Calderón ha cominciato la sua guerra alla droga, mentre la produzione di stupefacenti in Messico è aumentata. Nel 2008, secondo il dipartimento di Stato Usa, la produzione potenziale di eroina ha raggiunto i 18 milioni di tonnellate, in aumento dai 13 milioni del 2006, dato l’aumento della produzione di oppio grezzo, passato da 110 a 149 milioni di tonnellate. La produzione di cannabis è cresciuta di 300 tonnellate nello stesso periodo, raggiungendo le 15.800 tonnellate. In altre parole, da quando Calderón ha cominciato questa guerra, c’è più droga che circola per le strade messicane, non meno.
 
Non c’è una via di uscita semplice da questo pantano. La National police force che gli ultimi tre presidenti del Messico – Ernesto Zedillo, Vicente Fox e Calderón – hanno tentato di costruire è ben lungi dall’essere in grado di sostituire l’esercito nei compiti di repressione dei reati legati alla droga. L’assistenza americana, come ha sottolineato chiaramente un report del General accounting office Usa del dicembre scorso, arriva in modo stentato. Anzi, secondo alcuni calcoli solo il 2% degli 1,3 miliardi di dollari di aiuto promessi sono stati sborsati. Forse la soluzione meno dannosa sarebbe di procedere “di default”: far sì che la guerra alla droga sparisca gradualmente dai titoli televisivi e dei giornali, e lasciare che il suo posto sia preso da altre guerre: quella alla povertà, alla microcriminalità e per la crescita economica.
Potrà non essere l’esito ideale, ma è meglio che prolungare una battaglia che non può essere vinta.
 
© Project Syndicate. Traduzione di Marco Andrea Ciaccia

La guerra (sbagliata) di Calderón

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