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Non c’è dubbio che prima la crisi pandemica e adesso il conflitto in Ucraina abbiano ridefinito l’assetto delle relazioni internazionali e rafforzato la centralità geopolitica del Mediterraneo: in questo quadrante si incrociano le prospettive di grandi potenze come Stati Uniti e Cina, si giocano le ambizioni vecchie e nuove di Russia e Turchia, si determina il futuro di un grande continente, eterogeneo e complesso, come l’Africa. Un Mediterraneo storicamente area di scambio e di contaminazione, ma pure teatro di forti contrasti, nel cui spazio “bifronte” il nostro Paese deve giocare un ruolo strategico, non solo per l’immutabile morfologia peninsulare. L’Italia, immersa nel mare nostrum, è infatti inevitabilmente toccata dai venti di crisi che soffiano a poche miglia dalle sue coste ed è la prima in Europa a subire l’impatto di problemi e fragilità che attraversano l’intera sponda sud.

È prioritario occuparsi del Mediterraneo in modo attivo e strutturato, rifuggendo quell’approccio occasionale e frastagliato che troppo spesso ha nutrito le nostre politiche, concentrate esclusivamente sul versante difensivo e securitario senza guardare alle potenzialità di sviluppo di un’area che, se favorite, comporterebbero certamente benefici diffusi. È questa una delle più importanti sfide che come italiani e come europei abbiamo di fronte, ed è su questo dossier che occorre impegnarsi, sulla necessità di definire un’agenda per il Mediterraneo, articolandone i capitoli in termini di stabilizzazione, prosperità, crescita equa e condivisa.

Va detto con molta franchezza che in questi anni l’Europa ha manifestato proprio in ambito mediterraneo un approccio miope, fondato sulla competizione se non sulla esasperata conflittualità tra Stati membri, che ha contribuito a marginalizzare il ruolo comunitario nel suo complesso e favorito i soggetti terzi – dalla Cina alla Russia, passando per la Turchia, senza dimenticare Qatar ed Emirati Arabi Uniti – che hanno sfruttato le divisioni dell’Europa, la sua incapacità di leggere i fenomeni mediterranei, per sostituirla nella regione con il loro protagonismo assertivo e con i loro propositi egemonici. È questa, oggi, la fotografia della realtà: l’Europa come soggetto che serve ma che non c’è, divisa tra il suo voler essere e il suo non poter essere attore e potenza globale, mentre l’Italia – nonostante le discrete performance commerciali – si barcamena come può in un mare divenuto sconosciuto e più ostile di quanto non fosse in passato.

Le variabili che hanno determinato l’insuccesso di tutta una sequela di tentativi sono diverse e molteplici, ma al fondo della verità c’è il fatto che noi abbiamo smarrito la rotta del mare nostrum. Lo abbiamo fatto sull’onda dei nuovi furori ideologici sorti sul finire del Novecento, alimentati dall’illusione di trovarsi alla “fine della storia”, salvo poi ricredersi ed essere costretti a operare in condizioni di emergenza. E l’emergenza, si sa, non è mai lo sfondo migliore per comportamenti lungimiranti. Oggi, bisogna alimentare una nuova visione euro-mediterranea ad ampio raggio, predisporre e mettere in atto azioni che favoriscano il dialogo tra le culture, che incidano sulla struttura socioeconomica di quei Paesi dai quali ci separa uno specchio d’acqua, che vanno aiutati a crescere attraverso una politica equilibrata di sviluppo, di investimenti, di innalzamento della qualità della vita.

Dobbiamo riflettere su come “vivere” questa rinnovata centralità, perché richiede al contempo grandi visioni e sano pragmatismo. Si tratta quindi di intessere nuove relazioni strategiche, di recuperare e rivitalizzare quelle esistenti, a maggior ragione perché c’è bisogno di un approccio condiviso alle grandi sfide comuni, che rappresentano priorità decisive e ineludibili per il futuro: la questione energetica, la tematica demografica, il cambiamento climatico, la sicurezza marittima, la pianificazione dello sviluppo urbano.

*Questo articolo è apparso sulla rivista Formiche di maggio 2023, nella sezione dedicata al Global Gateway

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