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La grande trasformazione dei modi di produrre e lavorare, in atto da tempo, registra ora la straordinaria accelerazione della AI generativa con esiti solo in parte prevedibili. Si è certamente consolidato l’abbandono dei lavori ripetitivi ad ogni livello di competenza e responsabilità, dalla pizzeria alla fabbrica.

Ribadiamo: i lavoratori hanno riacquistato (o possono riacquistare) un volto! Non sono più aggregabili in masse indistinte. Ogni persona nel lavoro, che deve necessariamente essere coinvolta nella sua integralità, è originale rispetto all’altra. Cresce peraltro il numero di coloro che realizzano i compiti assegnati perseguendo obiettivi con autonomia e responsabilità senza alcun rigido vincolo spazio-temporale.

Questo non significa rinunciare a regole generali e inderogabili, una sorta di “pavimento” per tutti i lavori a tutela di coloro che permangono in condizioni di fragilità. È la funzione delle norme europee, che dovrebbero trovare semplificazione nelle rinnovate istituzioni dell’Unione e più agile recepimento interno, senza l’appesantimento di complessità aggiuntive. Ma al di sopra di esse, il legislatore (come il magistrato) dovrebbe rispettare la capacità adattiva della contrattazione.

Anche questa, tuttavia, è sfidata a limitare le soluzioni omologhe soltanto in materia di welfare contrattuale: grandi fondi dedicati a previdenza, sanità e assistenza che ci auguriamo si orientino alla universalità dei lavoratori (in questo uguali) e dei loro familiari, tutelandoli durante l’intero arco di vita.

Per il resto, per tutto il resto, dovrebbe prevalere la contrattazione più prossima perché intrinsecamente più capace di personalizzare le risposte ai bisogni e alle aspirazioni dei lavoratori compatibilmente con le esigenze competitive delle imprese. La fantasia e la creatività sono generate nella prossimità, non nei tavoli di livellamento nazionale.

Ogni persona è un valore in generale e nello specifico della dimensione lavorativa, ove può trovare la possibilità di esprimere i propri talenti anche grazie alle opportunità di apprendimento, di avere una carriera dinamica e quindi un reddito (diretto e tramite prestazioni sociali) commisurato al suo contributo ai risultati dell’impresa, di prevenire i bisogni di salute in relazione non solo ai rischi professionali, ma alle più generali condizioni soggettive.

Non meno decisiva per il benessere distribuito sarà la riorganizzazione dei mercati (plurale!) del lavoro, ancora rattrappiti dalla insufficienza degli intermediari e dal “collo di bottiglia” delle funzioni burocratiche attribuite ai centri per l’impiego.

L’ascensore sociale, negli anni migliori della crescita italiana, è stato uno strumento straordinario per la competitività e per lo sviluppo di un robusto ceto medio. Nella grande crisi dell’offerta di lavoro, determinata in primo luogo (ma non solo) dal declino demografico, diventa ancor più possibile costruire una società vitale, caratterizzata da tassi di occupazione e indicatori di conoscenze al livello dei migliori Paesi industrializzati.

Fenomeni negativi come l’inattività, la povertà nello stesso lavoro, la denatalità “economica”, le discriminazioni, possono essere assorbiti solo in una società aperta, dinamica, vitale che sa rimuovere tutte le occlusioni.

La prima leva sarà una rivoluzione dei canali e modelli educativi, plurali perché capaci di corrispondere alla libertà di scelta e di accogliere i talenti che a ben vedere sono in ogni persona, privi di gerarchie, perché tutti, con pari dignità, funzionali a potenziare l’autosufficienza di ciascuno, integralmente formativi perché uniscono apprendimento teorico e pratico.

Il futuro dei corpi intermedi dipenderà dalla loro capacità di superare le semplificazioni del passato centralistico per svolgere una originale funzione di tutela e rappresentanza quanto più prossima ai rappresentati. Il vizio da sconfiggere è quello della autoreferenzialità di burocrazie indifferenti che le soluzioni di carattere pubblicistico tendono invece ad esaltare.

Il confronto con il salto tecnologico invoca più (e non meno!) libertà in una società che voglia essere effettivamente inclusiva e competitiva. E’ un’opportunità da cogliere, non una sorte avversa da subire.

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