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Marcello Veneziani in un articolo per ricordare il trentennale della fine della Democrazia cristiana che (non) finì 30 anni fa, ha scritto: “C’erano più parlamentari della seconda Repubblica che ai tempi dello scudo crociato”.

Quel partito infatti “non morì del tutto e per davvero, altre Dc si moltiplicarono nel tempo e il ceto democristiano sotto falso nome rioccupò il potere e il sottopotere, riempì le dispense del Paese, un po’ come le scatolette della carne Montana nella pubblicità. Tuttora c’è un Mattarella al Quirinale e il gran ciambellano della Repubblica è sempre quel Bruno Vespa, per non dire di tutto il resto…”.

Ed è proprio vero, perché anche oggi, i partiti che hanno vinto alla grande le elezioni e che attualmente governano il Paese cercano e “sistemano” vecchi democristiani per “alleggerire” la propria immagine di esecutivo di Destra e per rassicurare l’Europa. Se si osserva bene in fondo è presente nella maggioranza, negli apparati della burocrazia ministeriale e nelle società controllate dello Stato una forte componente “moderata”, quindi affidabile. Sono sotto gli occhi di tutti i vari tentativi più o meno riusciti di mettere in vetrina in questi mesi donne e uomini buoni per tutte le stagioni. Si è andato a pescare nel ventre dell’antica balena bianca, come veniva definita durante il primo mezzo secolo della Repubblica, la Democrazia cristiana.

Sta avvenendo cioè quello che già capitò nel corso della cosiddetta Seconda Repubblica e che già allora coloro che provenivano da storie politiche “forti” e consolidate, lamentavano e non condividevano.

Ricordo a riprova di quanto scrivo un episodio simpatico ed esemplificativo della mia vita parlamentare: alla fine delle giornate lavorative i senatori e gli esponenti del governo erano soliti andare a cenare al Ristorante del Senato, che ora non c’è più e che un tempo serviva oltre alla ristorazione dei parlamentari, anche per consentire di continuare a lavorare durante i pasti, per scambiare opinioni ed idee, per confrontarsi, soprattutto per familiarizzare tra noi, indipendentemente dalle appartenenze di schieramento.

Ho un ricordo vivo, in particolare, di una cena con Umberto Carpi. Esponente trai più rappresentativi del Sessantotto pisano (era nato a Bolzano nel 1941 ma era vissuto a Pisa) Carpi era stato eletto al Senato della Repubblica nel marzo del 1994 nelle file di Rifondazione Comunista e poi riconfermato nella successiva legislatura. Era stato sottosegretario di Stato al ministero dell’Industria, il commercio e l’artigianato nel primo governo di Romano Prodi (dal 22 maggio 1996 al 20 ottobre 1998) e nel primo governo di Massimo D’Alema (dal 22 ottobre 1998 al 21 dicembre 1999).

Ma Umberto era sopratutto uomo di cultura e su questo piano era nato il nostro rapporto. Alla fine della giornata quelle cene servivano anche per alleggerire tensioni e contrapposizioni e nell’ambito delle sue deleghe e competenze, per enti e società pubbliche o a partecipazione statale, tutti i partiti, da An ai Democratici di Sinistra, passando per Forza Italia e per l’Udc, tutti ripeto, gli avevano segnalato per quei posti tecnici (si fa per dire) tutti ex. Capisci mi disse “non c’è partito che mi abbia segnalato un ‘comunista’, ‘un fascista’, un ‘vero liberale’, un socialista. Solo l’Udc è stato coerente e mi ha naturalmente segnalato i ‘suoi’ democristiani, ex democristiani”. Ed insieme ridevamo del fatto che tutto era cambiato nella Seconda Repubblica, perché tutto rimanesse come prima.

In fondo da persone cresciute attraverso consolidate culture politiche – contrapposte ma informate ad ideali e valori – ci meravigliavamo e ne sorridevamo che tutti i partiti dell’epoca non erano in grado di proporre uomini nuovi e “di parte” per incarichi di responsabilità, se non “vecchi” ed “usurati” democristiani.

In queste valutazioni eravamo sulle stesse posizioni. Per questo ci stimavamo ed eravamo amici.

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