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Guardando ai dati macroeconomici cinesi del secondo trimestre, di cui tutto il mondo parla in questi giorni, il professore Michael Pettis, docente della School of Management della Peking University e Senior Fellow del Carnegie, sembra essere stato ancora una volta  profetico. Da oltre dieci anni, il prof. Pettis evidenzia le criticità di un modello economico fondato sullo spostamento forzoso di risorse da parte del governo centrale a favore delle esportazioni e a scapito dei consumi interni. Questo squilibrio, le cui prime avvisaglie si erano già palesate nella seconda metà degli anni 2000 e lo dichiaravano allora i responsabili dell’economia cinese, ha ormai creato delle distorsioni profonde che mettono a repentaglio la sicurezza economica del paese e impongono alla leadership di Pechino misure drastiche e urgenti. 

Dati alla mano, anche i più recenti, questa analisi apparentemente in controtendenza rispetto alla narrativa mainstream di una potenza economica sempre più egemone a livello globale, sembra molto più che accurata. Formiche.net ha avuto la rara opportunità di partecipare a una lezione dell’economista statunitense organizzata dal TOChinaHub la scorsa settimana con la direzione del prof. Enrico Fardella, docente dell’Università di Napoli l’Orientale e direttore del progetto ChinaMed.it. I numeri del Prodotto interno lordo non erano stati ancora pubblicati ma Pettis aveva già anticipato il rallentamento dell’economia cinese: rispetto al trimestre precedente il Pil si è espanso solo dello 0,8% nel periodo aprile-giugno (la metà del tasso medio dei cinque anni prima del Covid era del 2,2% nel primo trimestre). I dati ufficiali, pubblicati lunedì, indicano che questo rallentamento è generato, come indicato da Pettis, principalmente dalla scarsa domanda interna e dal calo di quella estera.

Per Pettis, mentre i responsabili della politica economica di Pechino accettano ormai in larga misura che la Cina debba riequilibrare la propria economia in modo che la crescita sia trainata maggiormente dai consumi interni e meno dagli investimenti, una volta che il Paese inizierà a prendere sul serio questa necessaria correzione del modello economico cinese è improbabile che la crescita reale del Pil superi il 2-3% su base annua per molti anni, a meno che non si verifichi una incremento sostanziale del tasso di aumento dei consumi. Vero che i numeri usciti in questi giorni dicono che le vendite al dettaglio a giugno sono salite del 3,1% su base annua, mentre la produzione industriale è aumentata del 4,4%. Ma la maggior parte degli economisti avevano invece previsto che l’economia cinese sarebbe cresciuta di oltre il 7%. Tuttavia, l’Ufficio nazionale di statistica cinese (NBS) ha dichiarato che i risultati hanno evidenziato il “buon momento” della ripresa dell’economia dopo la pandemia.

“Per trimestre, il Pil è cresciuto del 4,5% su base annua nel primo trimestre e del 6,3% nel secondo”, ha dichiarato il portavoce dell’ NBS. “La domanda di mercato si è gradualmente ripresa, l’offerta di produzione ha continuato ad aumentare, l’occupazione e i prezzi sono rimasti generalmente stabili e il reddito dei residenti è cresciuto costantemente”. Per il governo cinese, “dal punto di vista della domanda, le principali forze trainanti della crescita economica sono cambiate dagli investimenti e dalle esportazioni dell’anno scorso ai consumi e agli investimenti quest’anno”. E però c’è un altro dato determinante: la disoccupazione giovanile ha raggiunto un livello record. È un ulteriore segnale della ripresa discontinua della Cina: la percentuale dei giovani cinesi che non lavora ha toccato il livello record del 21,3% a giugno, rispetto al 20,8% di maggio, secondo dati governativi. Una fonte accademica cinese ha raccontato a Formiche.net che ormai nel suo dipartimento ci si chiede se i neolaureati affacciati nel mondo del lavoro sono o non sono occupati, “e spesso la risposta è no, nonostante la domanda in Cina fino a poco tempo fa potesse sembrare surreale”.

Pechino ha fissato il suo obiettivo di crescita per il 2023 a circa il 5%, un valore conservativo rispetto al trend di crescita degli ultimi decenni. L’economia cinese è cresciuta ufficialmente del 3% nel 2022, uno dei risultati più deboli degli ultimi decenni. Ma si incolpava di questa contrazione le misure restrittive che hanno sostanzialmente isolato il resto del mondo durante la pandemia. Adesso ci si aspettava una ripresa spinta, un ritorno alla normalità, che ancora non c’è stato. Il China Daily scrive che “sono necessarie misure politiche ben mirate per mantenere i compiti di aumentare la domanda interna e sostenere i consumi in cima all’agenda lavorativa della Cina, con misure più energetiche necessarie per aumentare i redditi delle famiglie”. 

Ma mentre ora tutti sembrano concordare sul fatto che i consumi debbano svolgere un ruolo più importante e che affinché ciò avvenga ci debba essere un aumento del reddito familiare, “nessuno sembra discutere su quali saranno i costi e i vincoli di un tale spostamento, e come gestirli”, ha spiegato Pettis. Il fatto, secondo l’analisi del professore, è che non basta che il reddito familiare aumenti. Affinché i consumi svolgano un ruolo più importante nell’economia, la quota delle famiglie sul Pil deve aumentare, “il che significa che dopo decenni di trasferimenti dalle famiglie per sovvenzionare la produzione e gli investimenti, questi trasferimenti devono essere invertiti”.

Per realizzare questa necessaria e urgente transizione tuttavia, dice Pettis, sarà necessario distribuirne i costi: un’operazione politicamente molto ardita piche richiederebbe di affidarne la gran parte a quelle élite, in primis i governi locali, che hanno enormemente beneficiato fino ad oggi dall’eccessiva enfasi sugli investimenti portata avanti da Pechino. “La Cina rischia di seguire la strada del Giappone, dove si parla di potenziare il ruolo dei consumi nel guidare la crescita fin dal rapporto Maekawa del 1986, e lo si fa ancora oggi”, dice Pettis.

In sintesi dunque: il modello economico cinese è insostenibile e necessita di una correzione urgente che sposti le risorse dalla parte supply (export/infrastrutture) a quella demand (consumi). Per farlo occorre una riforma istituzionale (centralizzazione contro potere governi locali) e finanziaria (fine dei sussidi alle aziende esportatrici e revisione degli investimenti esteri quali quelli della Belt and Road initiative) che sembra insostenibile (peraltro nessun paese con modelli economic analoghi è mai riuscito a compiere questa ‘corrrezione’ proprio perchè i costi politici erano insostenibili). La discrasia tra le ambizioni globali del paese e capacità reali di sostenerla potrebbe dunque emergere sempre più chiaramente nei prossimi mesi. 

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