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Il ritorno al nucleare in Italia è di fatto irrealizzabile. Non ha senso continuare a riproporlo nel nostro paese. Qualche giorno fa su questo giornale ho letto l’intervento del prof. Zollino, responsabile energia di Azione. Non voglio parlare di sicurezza, degli incidenti di Three Mile Island, Chernobyl e Fukushima. Prima che avvenissero si sosteneva che mai e poi mai sarebbero potuti accadere.

Non voglio parlare della situazione alla centrale nucleare di Zaporizhzhia. L’Aiea, l’agenzia internazionale per l’energia atomica, la ha definito più volte “estremamente fragile e pericolosa” e ha ammonito sulle disastrose conseguenze che un incidente radiologico avrebbe sulle popolazioni di Ucraina, Russia e degli stati confinanti. Non voglio parlare del problema della scorie. Non sappiamo ancora dove mettere quelle delle vecchie centrali italiane, perché non abbiamo ancora individuato il sito dove realizzare il deposito nazionale.

Voglio piuttosto parlare di quanto tempo ci vorrebbe per vedere eventualmente in funzione il primo reattore in Italia. Secondo l’articolo del prof. Zollino, “la media mondiale per il tempo di costruzione degli oltre 100 reattori collegati in rete dal 2000 ad oggi è di poco inferiore a 7 anni”. Dal 2000 è stata avviata la costruzione di soli otto reattori tra EU e Stati Uniti, e solo due di questi otto reattori sono entrati in funzione. In Europa, quello di Olkiluoto (Finlandia), nel 2023 la cui costruzione era iniziata ben 18 anni prima, nel 2005. I costi si sono triplicati, arrivando a 11 miliardi di euro.

Non è andata meglio in Francia per il reattore di Flamanville, in costruzione dal 2007, che avrebbe dovuto essere completato nel 2012 ma lo sarà (forse) nel 2024, dopo 17 anni al costo totale di 19 miliardi di euro. L’Italia tramite Enel aveva investito 613 milioni, e anche grazie al referendum del 2011 abbiamo potuto recuperare questi soldi. Il Regno Unito ha iniziato la costruzione dei due reattori a Hinkley Point nel 2016 e  nel 2019. Il primo reattore potrebbe essere completato solo nel 2027, dopo 11 anni  con costi arrivati a 40 miliardi di euro.

Gli altri reattori allacciati alla rete nell’Ue dal 2000 in poi sono quelli la cui costruzione è iniziata in epoca pre-sovietica, come ad esempio i due di Mochovce in Slovacchia, la cui prima pietra fu posata nel lontano 1987. Solo uno è entrato in funzione proprio quest’anno. Certo, c’è stato uno stop ai lavori (ripresi nel 2008) ma si tratta comunque di 15 anni dal nuovo avvio e di ben 36 anni totali. In ogni caso, ecco i tempi in inizio e fine lavori di tutti i reattori allacciati alla rete dal 2000 in paesi Eu: Temelin 1, Rep Ceca, 1987-2000: 13 anni;  Temelin 2, Rep Ceca, 1987-2002: 15 anni;  Cernavoda 2, Romania, 1983-2007: 24 anni; Mochovce 3, Slovacchia, 1987-2023: 36 anni; Olkiluoto 3, Finlandia, 2005-2023: 18 anni. La media, per quello che può significare, è di 21.2 anni.

Negli Stati Uniti non è andata affatto meglio. L’incidente di Three Mile Island del 1979 non ha causato vittime ma ha ucciso l’industria nucleare americana. Metà dei reattori in progetto è stata cancellata. Solo nel 2013 è stata avviata la costruzione di altri reattori. I due di Vogtle (Georgia) hanno visto un raddoppio dei costi stimati (da 14 a 28 miliardi di dollari) e il completamento di uno solo dopo 10 anni.

Qualcuno potrebbe pensare: “Ma se i reattori servono, li dobbiamo fare, non importa se ci mettiamo 20 anni!” La costruzione dei due reattori di Virgil Summer (Carolina del Sud) fu iniziata nel 2013 con una spesa preventivata di 9.8 miliardi di dollari. Dopo che i costi salirono a 25 miliardi e un avanzamento lavori minimo, il progetto fu cancellato. I 9 miliardi spesi fino a quel punto saranno pagati dai contribuenti dello stato americano.

Di quanto alza la media dei tempi di costruzione un progetto che ci metterà “tempo infinito” Questi ritardi sono dovuti essenzialmente alla perdita di competenze. Ad esempio, per le saldature in un reattore nucleare servono anni per formale il personale specializzato. Per un qualsiasi reattore, la posa della prima pietra richiede almeno cinque anni dalla decisione. Teniamo anche presente che rispetto agli altri paesi, che hanno costruito su luoghi che ne ospitavano già altri reattori, l’Italia non solo dovrebbe individuare i siti, ma anche ricostruire la filiera nucleare.

Visto quello che è successo negli altri paesi europei, in Italia realisticamente prima di 20 anni non si accenderebbe nemmeno una lampadina da nucleare. Lasciamo stare quanto ci vorrebbe per una produzione significativa di energia. Gli obiettivi di decarbonizzazione indicati dall’Ipcc (Intergovernative Panel on Climate Change) per limitare il riscaldamento globale a 1.5 °C sono:  picco delle emissioni di CO2 entro il 2025, riduzione del 40% entro il 2030 e  “net zero” nel 2050.

Se si vuole ascoltare Ipcc, bisogna ridurre le emissioni il prima possibile, non di aspettare 20 anni per iniziare a fare qualcosa, ignorando i primi due obiettivi. Inseguire il sogno nucleare in Italia significherebbe sottrarrebbe fondi alle rinnovabili, che con dei limiti un contributo alla decarbonizzazione lo danno in tempi ragionevoli, e andare avanti nel frattempo con le fonti fossili.

Ci sono però paesi del mondo dove i reattori sono costruiti in tempi ragionevoli, come la Cina. Dagli anni ‘90 ne sono stati avviati circa sessanta con tempi di costruzioni di sette anni o meno. Paesi come la Cina (o gli Emirati Arabi, che i suoi reattori li ha costruiti sulla costa del deserto) rappresentano però un modello economico non paragonabile all’unione europea, in termini di mercato del lavoro e diritti civili. Tuttavia, se in Cina il nucleare cresce lentamente le rinnovabili invece volano.

La produzione di energia elettrica da nucleare in Cina è passata nel 2022 da 407 a 417 TWh (10 TWh, +2.5%), rimanendo comunque marginale (solo il 5% del totale). Quella da fonti rinnovabili invece è balzata in un solo anno da 980 a 1180 TWh, con un aumento di oltre il 20%.

Un altro paese che investe nel nucleare è la Russia. Tramite la sua compagnia statale Rosatom domina il mercato dell’industria e del combustibile nucleare, nel quale ha una predominanza paragonabile a quella dei paesi Opec per il petrolio. Nei reattori non ci va il semplice uranio, ma l’uranio arricchito (tramite un processo complesso) nel suo isotopo U235, che è presente solo per lo 0.7% nell’uranio naturale. Secondo il New York Times, mentre gli USA fornisco armi all’Ucraina, le sue centrali acquistano metà del proprio uranio arricchito da Rosatom, pagando miliardi alla Russia.

Qualche settimana fa la Turchia ha inaugurato la centrale di Akkuyu. Era presente in videocollegamento Putin. La centrale è stata finanziata e costruita da Rosatom, che fornirà il combustibile e la gestirà per i prossimi. È forse una buona idea avere in un paese della Nato un’infrastruttura energetica chiave in quella che è di fatto un’enclave russa?

Il nucleare è presentato come fonte affidabile per la produzione di energia, che non avrebbe problemi di accumulo e intermittenza come le rinnovabili. A parte che la centrale di Zaporizhzhia non produce nulla da 15 mesi, visto che si è stati costretti a spegnerla e che anche i reattori francesi stanno mostrando i segni dell’età (37 anni in media), le soluzioni per questi problemi si possono trovare. Si pensi ad esempio all’uso dell’idrogeno come vettore energetico, all’integrazione della rete europea, all’uso delle fonti fossili con cattura della CO2, ai biocarburanti o a un ripensamento dell’uso della rete. Ad esempio, si può utilizzare il fotovoltaico di giorno e l’energia prodotta dai bacini idroelettrici prevalentemente di notte.

Il mondo sta di fatto andando verso l’abbandono del nucleare: l’età mediana dei reattori nel mondo è di oltre 35 anni e oramai se ne costruiscono solo 6-7 l’anno.  Ha senso nei prossimi 20 anni affrontare la sfida della decarbonizzazione dell’Italia con una tecnologia che già venti anni fa era obsoleta?

Ritorno al nucleare in Italia? Irrealistico e inutile. Bella risponde a Zollino

Di Marco Bella

Visto quello che è successo negli altri paesi europei, in Italia realisticamente prima di 20 anni non si accenderebbe nemmeno una lampadina da nucleare. Lasciamo stare quanto ci vorrebbe per una produzione significativa di energia. Inseguire il sogno nucleare in Italia significherebbe sottrarre fondi alle rinnovabili, che con dei limiti un contributo alla decarbonizzazione lo danno in tempi ragionevoli, e andare avanti nel frattempo con le fonti fossili. Marco Bella, docente alla Sapienza di Scienze biologiche, risponde a Zollino

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