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Ogni tre anni l’Europa, nella consapevolezza della propria estrema vulnerabilità riguardo alla disponibilità di materie prime, censisce i minerali critici e ne aggiorna una lista che non vuole essere l’elencazione pedissequa della tavola degli elementi chimici di liceale memoria o la mappatura della tavola periodica della crosta terrestre ma, piuttosto, una valutazione geo-politica della loro reperibilità sul mercato, attuale e prospettica.

Quest’anno, la lista ne contiene 34: new entry sono l’arsenico, usato in metallurgia e nei semi-conduttori; il feldspato, impiegato nell’industria ceramica e vetraria e il manganese, cruciale per le batterie così come il litio, ormai entrato nell’immaginario collettivo come componente essenziale per la produzione di tutte le batterie ricaricabili più diffuse, da quelle impiegate negli smartphone a quelle destinate ad alimentare i veicoli elettrici.

Fra tali minerali vi sono le terre rare (o Rare Earth Elements), un insieme di 17 metalli presenti nella tavola periodica degli elementi chimici che presentano straordinarie proprietà magnetiche e conduttive che le rendono indispensabili in molti settori tra cui, l’industria elettronica, tecnologica aeronautica e militare. Esse sono fondamentali per la produzione e il funzionamento di oggetti che fanno parte della quotidianità come gli smartphone, i touchscreen, le lampade a led e gli hard disk dei computer ma sono anche alla base di tecnologie come fibre ottiche, laser, apparecchiature elettro-medicali, turbine eoliche e pannelli fotovoltaici.

Tutti i minerali critici citati, come pure i più conosciuti nickel, rame, cobalto e uranio, utilizzato nel settore nucleare, anche se sono definiti rari non sono difficili da trovare essendo presenti in abbondanza in molte parti del Mondo: dalla Cina all’Australia, dagli Stati Uniti alla Russia, dal Brasile al sud-est asiatico. Dovunque, tranne che nel Vecchio Continente, dove i Governi nazionali – e fra essi quello italiano – stanno cercando di incentivare la ricerca e lo sfruttamento delle riserve presenti.

Già nel 2020 la Commissione Europea aveva presentato l’Action Plan on Critical Raw Materials con il quale intendeva rispondere al rischio di carenza o interruzione dell’approvvigionamento di tali minerali essenziali per l’industria europea nonché al rischio della loro scarsa sostituibilità.

Come? Riducendo la dipendenza da Paesi terzi, spingendo la diversificazione delle fonti di approvvigionamento anche con il sostegno alle attività di ricerca e produzione nel territorio europeo, migliorando l’efficienza e la circolarità dell’uso di tale risorse e mettendo in atto politiche di stoccaggio strategico di prodotti contenenti materie critiche.

La mitigazione dei rischi paventati dall’Unione Europea dovrebbe (il condizionale è d’obbligo quando a livello continentale c’è da condividere aspetti strategici) essere accompagnata anche da soluzioni geo-politiche condivise. Uno dei luoghi fisici più ricchi di tali minerali e terre rare è certamente l’Africa, il continente più prossimo all’Europa, e in particolare, il Sāḥel che, negli ultimi anni, ha assunto una nuova centralità e interesse per attori internazionali che hanno sviluppato un contesto di forte competizione globale per l’accesso alle risorse e ai mercati di quella regione.

Il Sāḥel, negli ultimi anni teatro di guerre locali che hanno portato a rivolgimenti istituzionali in Niger, Ciad, Mali, Repubblica Centrafricana, Guinea-Conakry, Burkina Faso e Gibuti è dunque lo scacchiere sul quale, in modo nascosto, si sta giocando la partita determinante del controllo del patrimonio di risorse minerarie più ricco e contendibile al Mondo.

La Cina, occupa senz’altro una posizione primaria e di rilievo nell’area, basata sulla realizzazione di partnership, accordi commerciali e d’investimento con gli Stati saheliani, oltre che attraverso l’invio di unità militari a protezione del personale civile. Il coinvolgimento di Pechino nelle iniziative di peacekeeping nel Sāḥel va inserito nell’ambito della protezione dei propri interessi economici, commerciali e dei propri investimenti.

Nella lotta per il controllo delle risorse minerarie nel Sāḥel un ruolo determinante lo ha la compagnia di sicurezza russa della Wagner divenuta famosa a seguito delle recenti esternazioni del suo fondatore e padrone Evgenij Prigožin. Wagner che ha una presenza militare, con una base di addestramento tra Libia e Ciad, e commerciale in tutti i Paesi del Maghreb e del Sāḥel è ora all’opera in Sudan. La guerra civile in Sudan imprime, infatti, una forte accelerazione agli sviluppi internazionali. In campo ci sono sì gli interessi della Russia ma anche quelli dell’Egitto, dell’Etiopia, della Turchia, dell’Italia (attraverso la Libia), della Francia e ovviamente degli Stati Uniti.

La battaglia che si combatte a Khartoum è cruciale per i russi che, arrivando a controllare l’area, avrebbero il controllo delle risorse minerarie della regione, delle forniture destinate all’Ue (nonché dei flussi migratori verso l’Europa meridionale) e potrebbe dunque rappresentare una grave minaccia alla sicurezza industriale dell’Europa. Insomma, un conflitto nascosto ma dalle conseguenze non meno pericolose di quello palese, mediatico combattuto sul suolo ucraino.

Una situazione che il Vecchio Continente non dovrebbe lasciare agli equilibrismi geopolitici nazionali ma gestire con comune determinazione e con senso di realpolitik su tutte le partite globali.

Minerali critici, terre rare e conflitti nascosti

Alla stabilità geopolitica dell’Africa è strettamente legata la corsa alle terre rare. La lotta per il controllo dei territori ricchi di queste risorse vede protagonisti tanto l’Unione europea quanto due giganti come Cina e Stati Uniti. Al centro di questo delicato equilibrio c’è il futuro della sovranità industriale europea e della concreta realizzazione della transizione energetica

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