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La notizia delle scorse ore sull’estensione delle deroghe a Lukoil da parte dell’amministrazione Trump introduce un elemento di pragmatismo dentro un quadro di sanzioni che, sulla carta, avrebbe dovuto colpire con durezza il secondo colosso petrolifero russo. A pochi giorni dall’entrata in vigore della nuova tornata di misure punitive, previste inizialmente per il 21 novembre, il Tesoro americano ha infatti autorizzato Lukoil a continuare a operare buona parte delle sue attività internazionali fino al 13 dicembre, prorogando addirittura fino ad aprile 2026 la possibilità di mantenere attiva la maxi-raffineria bulgara di Burgas e la rete dei distributori del gruppo fuori dalla Russia.

La scelta arriva in un momento in cui l’Europa aveva già iniziato a prepararsi al peggio. L’annuncio delle sanzioni aveva generato preoccupazioni diffuse, soprattutto nei Paesi che dipendono in modo più diretto dagli asset europei della compagnia. La Germania ha ottenuto un’esenzione temporanea per la raffineria di Schwedt, cruciale per il rifornimento dell’Est del Paese; la Bulgaria ha messo in moto la nazionalizzazione dell’impianto di Burgas; l’Ungheria, dopo la visita del premier Viktor Orbán alla Casa Bianca, ha strappato un anno aggiuntivo per continuare ad acquistare petrolio russo. Lukoil, dal canto suo, aveva annunciato la decisione di vendere le proprie attività estere, ma la trattativa più avanzata, quella con Gunvor, è naufragata dopo il veto di Washington. L’unico potenziale acquirente rimasto in pista sembra ora il fondo statunitense Carlyle.

La proroga americana non rappresenta un allentamento della pressione politica su Mosca, quanto piuttosto un’operazione di gestione del rischio. Lukoil è la compagnia energetica russa più internazionalizzata, presente in raffinerie europee, in campi petroliferi dal Medio Oriente all’Asia centrale e in reti di distribuzione che attraversano Stati Uniti, Belgio, Romania e diversi Paesi dei Balcani. Un’interruzione improvvisa delle sue attività, soprattutto quelle retail, rischierebbe di produrre effetti immediati sui mercati locali: carenze di carburante, aumento dei prezzi, problemi operativi per le società che dipendono dalle sue infrastrutture. Washington ha scelto quindi una transizione graduale, per evitare shock che finirebbero per colpire gli alleati prima ancora della Russia.

C’è un secondo motivo, almeno altrettanto importante. L’estensione fino al 13 dicembre fornisce margine ai soggetti interessati a rilevare gli asset della compagnia. Lukoil aveva annunciato la decisione di vendere le proprie attività estere, ma la trattativa più avanzata, quella con Gunvor, è naufragata dopo il veto di Washington. L’unico potenziale acquirente rimasto in pista sembra ora il fondo statunitense Carlyle. La Casa Bianca ha chiarito che autorizzerà una vendita solo a condizioni estremamente rigide: l’operazione dovrà tagliare ogni legame di governance con Lukoil e i proventi confluiranno in un conto bloccato, non accessibile al gruppo fino alla rimozione delle sanzioni. Si tratterebbe dunque di una vendita sterilizzata, concepita per impedire benefici finanziari immediati alla Russia e per evitare che gli asset energetici rilevanti rientrino, anche indirettamente, nella sfera d’influenza del Cremlino.

La gestione americana di questo dossier mostra un equilibrio non semplice. Da un lato la volontà di colpire Mosca con sanzioni definite da Trump “tremende”, pensate per forzare un ritorno al negoziato sulla guerra in Ucraina; dall’altro la consapevolezza che un’applicazione meccanica delle misure rischierebbe di destabilizzare interi segmenti dell’economia europea, con ricadute politiche in un momento già sensibile. La proroga non cambia l’indirizzo della strategia, ma ne definisce i limiti operativi, riconoscendo la necessità di accompagnare la dismissione degli asset esteri di una grande compagnia russa anziché precipitarla.

 

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