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Quello dei semiconduttori è un settore in cui si gioca una delle sfide geopolitiche del secolo. Oltre a essere fondamentale per lo sviluppo economico, l’accesso ai microchip più avanzati – leggi: potenza di calcolo, efficienza e rapidità – si traduce in vantaggi strategici anche in campo militare e securitario. E nonostante quella dei chip sia una catena di approvvigionamento incredibilmente complessa, il 90% di quelli migliori provengono da un solo luogo: Taiwan, il probabile epicentro del prossimo grande confronto globale, a giudicare dalla traiettoria sempre più assertiva della Cina.

Queste e altre considerazioni sono alla base della volontà statunitense di limitare lo sviluppo tecnologico della Cina, che dipende da fornitori esteri, tra cui Taiwan, per i chip più avanzati. Questa volontà si è tradotta in una serie di restrizioni alle esportazioni, imposte dall’amministrazione Biden lo scorso 7 ottobre, che prendono di mira i settori-chiave dei semiconduttori e dell’intelligenza artificiale (a sua volta basata su capacità di calcolo immense). Una minaccia esistenziale per Pechino, che vede nell’autonomia e nella supremazia tecnologica il fondamento dei propri piani di sviluppo – e sta progettando una risposta.

UN CAMBIO DI PARADIGMA

Come evidenzia Gregory Allen (direttore del Wadhwani Center for AI and Advanced Technologies e senior fellow del Strategic Technologies Program del Center for Strategic and International Studies) nel suo nuovo rapporto, il 7 ottobre 2022 “ha segnato l’inizio di una nuova era nelle relazioni tra Usa e Cina, e con esse nella politica internazionale”. Il cambio di passo è stato sostanziale: si passa dal limitare l’export solo nei settori più rischiosi (usi finali militari o soggetti sanzionati) a bandire l’esportazione di strumenti per produrre semiconduttori avanzati verso l’intera Cina. Cosa che può fare grazie al supporto degli alleati lungo la catena del valore.

“I controlli sulle esportazioni precedenti erano stati concepiti per consentire alla Cina di progredire tecnologicamente ma limitare il ritmo, in modo che gli Stati Uniti e i loro alleati mantenessero un vantaggio duraturo”, scrive Allen. “La nuova politica, invece, ha degradato attivamente la capacità tecnologica di punta dell’industria cinese dei semiconduttori”, portando le principali aziende cinesi del settore indietro di anni. Infine, per quanto possibile, le misure Usa sono pensate per impedire alla Cina di raggiungere una soglia fissa di prestazioni – in un settore in cui la capacità di calcolo, storicamente, raddoppia ogni paio d’anni. “Il che significa che il divario di prestazioni crescerà nel tempo man mano che il mondo progredirà e la Cina resterà indietro”.

Si può intuire la portata immensa della strategia americana considerando che produrre semiconduttori su scala è un processo complesso e fortemente globalizzato. Il prodotto finale, specie quello avanzato, richiede elementi – progettazione, know-how, macchinari e materiali di altissima qualità – che la Cina, nonostante anni di sviluppo straordinario e centinaia di miliardi in sussidi statali, non è in grado di fornire. È il motivo per cui nel 2020 ha importato chip per 350 miliardi di dollari, più dell’import di petrolio in termini monetari. Dunque questi controlli alle esportazioni equivalgono, nei fatti, a tagliare fuori Pechino dal giro e cristallizzare il suo progresso tecnologico nel settore del supercalcolo.

LA REAZIONE DI PECHINO…

Il 7 ottobre non è stato un fulmine a ciel sereno per il partito-Stato, che si approccia all’industria dei chip in termini di sicurezza nazionale almeno da quando l’amministrazione Trump ha imposto i controlli sulle esportazioni verso due aziende tech cinesi – Zte, poi Huawei – nel 2018. In diversi discorsi da allora, il presidente Xi Jinping ha rimarcato non solo l’urgenza di lavorare verso l’autosufficienza tecnologica (che storicamente passa anche dall’acquisire proprietà intellettuale a qualunque costo), ma anche il bisogno di rendere soggetti come gli Usa dipendenti dalla Cina. Questo pensiero si ritrova nel piano quinquennale presentato nel 2020, in cui c’è grande attenzione anche per l’IA.

Negli ultimi anni il Partito ha incoraggiato i produttori cinesi di chip a fare incetta di strumenti per fabbricarli. Parte della strategia è appunto assicurarsi che un’ulteriore stretta multilaterale – come un embargo totale sulla vendita dei chip, che si potrebbe verificare in circostanze estreme (l’invasione di Taiwan?) – non distrugga l’economia cinese. Parallelamente Pechino si muove per costruire deterrenza approntando misure di export control in grado di danneggiare i Paesi rivali nei settori che domina. Questi spaziano dai chip meno avanzati (ma necessari per moltissime industrie, tra cui quella dell’auto) all’estrazione e alla raffinazione di metalli rari, che controlla a livello globale per il 60 e 80% rispettivamente.

A ogni modo, scrive Allen, queste misure di deterrenza sono solo uno degli strumenti con cui la Cina può rispondere alle misure Usa – anche perché, come dimostra l’affrancamento europeo dagli idrocarburi russi, in caso di crisi i Paesi occidentali possono agire rapidamente e riorganizzare le proprie supply chain, anche attraverso la rinazionalizzazione dei processi. Del resto non mancano né i partner internazionali, né i minerali nel sottosuolo: si tratta “solo” di ricostruire la capacità di raffinazione, il vero collo di bottiglia cinese nel campo dei materiali critici.

… E LA SUA STRATEGIA

Secondo Allen, già si intravede la combinazione di strategie (oltre alla deterrenza via export control) che il Partito comunista cinese sta adottando per rispondere alla sfida dei semiconduttori – a partire da una combinazione di nuove tattiche e vecchi metodi per eludere i controlli e accedere alla tecnologia straniera. Un funzionario del governo statunitense ha dichiarato al Csis che la Cina sta “sicuramente” tentando di eludere le misure o addirittura di contrabbandare i chip, operazione difficile da fare sulla scala necessaria. Il governo cinese ha anche iniziato a rendere la vita difficile alle compagnie che supportano la due diligence – specie nel campo del rispetto delle sanzioni Usa – e studiare come costruire centri di calcolo fuori dai confini nazionali, per poter accedere alla capacità di calcolo via cloud.

In secondo luogo, continuano gli sforzi cinesi per rubare proprietà intellettuale alle aziende del settore attraverso spionaggio industriale e bracconaggio di talenti. L’obiettivo più ovvio è Asml, azienda olandese leader nella costruzione di macchinari stampa-chip, che ogni anno affronta migliaia di incidenti di sicurezza ed è stata oggetto di ripetuti tentativi cinesi. Ma anche Taiwan, dove agli ingegneri può essere offerta una paga cinque volte superiore per lavorare con una realtà cinese, ha reagito introducendo nuove leggi per rafforzare la sicurezza dell’industria, tra cui un sistema giudiziario dedicato allo spionaggio economico. Inoltre, le fabbriche cinesi stanno strutturando le loro attività produttive in modo da far funzionare fianco a fianco apparecchiature straniere e cinesi, gestite dallo stesso gruppo di lavoratori, affinché le prime possano essere usate come modello per perfezionare le seconde.

In tutto questo i produttori di chip cinesi faticano a competere con i fornitori stranieri in termini di prestazioni e affidabilità. Così il governo sta facendo pressione affinché acquistino apparecchiature e chip cinesi, per innescare lo sviluppo del tessuto industriale locale. Allen riconosce le tracce dell’approccio sostenuto da Lu Feng, influente professore della Peking University School of Government, secondo cui la Cina dovrebbe perseguire una strategia di “produzione completamente indipendente” in due fasi: “de-americanizzazione delle linee di produzione”, acquistando prodotti cinesi dove possibile, poi dagli alleati statunitensi e infine dagli Usa come ultima spiaggia; e “sostituire tutte le attrezzature e i materiali stranieri con attrezzature e materiali di produzione nazionale” attraverso la creazione di legami tra gli attori cinesi in tutti i segmenti della catena del valore.

Costruire una catena di fornitura interamente cinese potrebbe non essere un obiettivo raggiungibile nel prossimo futuro. Ma già la possibilità che le aziende cinesi, grandi importatrici, non comprino più quelli esteri è uno spauracchio molto efficace per le aziende (e dunque gli Stati) occidentali. Che sono l’ultimo soggetto della strategia di Pechino. Da quando Paesi Bassi e Giappone hanno dichiarato che si sarebbero allineati alle misure del 7 ottobre, la Cina sta facendo pressione su entrambi affinché non lo facciano. Intanto corteggia e minaccia altri Paesi lungo la catena del valore, come Germania e Corea del Sud, per convincerli a non seguire l’esempio degli alleati.

Nel mentre Pechino ha preso a vendicarsi contro chi sostiene le misure Usa in due modi: utilizzando misure antitrust per bloccare le fusioni e le acquisizioni che coinvolgono le aziende di semiconduttori Usa, e avviando una revisioni della cybersicurezza di realtà come Micron, il più grande produttore di chip di memoria statunitense, che potrebbe essere costretto a uscire dal mercato cinese. “È possibile che la Cina estenda le misure di ritorsione ad altre aree, ma finora sembra aver calcolato che tali misure farebbero più male che bene”, conclude il rapporto del Csis.

Chip cina

Così la Cina vuole vincere la guerra dei chip. Il rapporto Csis

Pechino sta mettendo in campo la sua risposta alle misure di export control Usa pensate per azzoppare la propria industria di semiconduttori. Le strategie passano dalla deterrenza (risposta parallela nel settore delle materie prime) allo spionaggio industriale, passando dall’incentivare l’autonomia produttiva e lavorare per dividere gli alleati degli Stati Uniti

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