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Se davvero vi fosse una maggiore dipendenza tedesca da Pechino ciò presupporrebbe una crescita del Pil cinese, che al momento non vedo. Così a Formiche.net Giulio Sapelli, economista e professore ordinario di Storia economica all’Università degli Studi di Milano che, partendo dalla imminente visita del cancelliere tedesco in Cina, ragiona sugli effetti geopolitici ed economici di uno scontro tra big players, con nel mezzo il Vecchio Continente.

La visita del cancelliere tedesco Olaf Scholz a Pechino certificherà una maggiore dipendenza cinese della Germania? E con quali conseguenza per l’Europa?

La dipendenza tedesca dalla Cina presupporrebbe che la Cina abbia un destino luminoso dal punto di vista della crescita economica. Invece la visita non è che una continuazione di quel percorso che la storiografia più intelligente ha sviluppato del percorso della Germania verso Oriente. Nel 1975, quando ero borsista all’Istituto per lo studio dell’economia mondiale all’Università di Kiel, venne a trovarci il ministro tedesco Hans-Dietrich Genscher, e anche lì, allora, si discuteva del problema della Germania: ovvero che una potenza di terra non potrebbe mai svilupparsi come potenza marittima. Genscher, con assoluta lucidità diceva: “Noi siamo una potenza di terra e dobbiamo rimanere una potenza di terra. Dato che non possiamo essere militari, dobbiamo avere lo spazio vitale, non solo in Russia che consideriamo un solo mondo. Ma il nostro futuro sarà la Cina”.

Quindi è naturale che Scholz vada a Pechino?

Il cancelliere non può che andare a Pechino, come la Germania non può che passare per Mosca: questo da un punto di vista dei cicli dell’accumulazione capitalistica. Allargare la circolazione del capitale lo si può fare o con la potenza marittima o con la rete, quindi è questo che provoca il conflitto con gli Stati Uniti.

Perché?

Perché gli Stati Uniti hanno fatto un altro ragionamento: il conglomerato teutonico-russo-cinese ha un asse di raccolta attorno all’industria e alla tecnologia, e si scontra con quel conglomerato capitalistico statunitense e cinese che ha come sua essenza la leva fiscale. Non dimentichiamo che Clinton fece entrare la Cina nel Wto nel 2001 e la Russia nel 2011.

I lampi di questo scontro si vedono in Ucraina?

Sì, ma nascono tra gli Urali e Vladivostok e tra gli Urali e Pechino. Sono determinati dal conflitto di questi due macro capitalismi, quello teutonico, russo cinese e quello statunitense-cinese, che ora cerca un prolungamento, cosa che i tedeschi non possono fare nell’Indo-Pacifico. Osservo che l’ex presidente Barack Obama era dell’idea di fare il World Trade Pacific Agreement col Vietnam, poi è arrivato Donald Trump che scioccamente lo ha fatto con Cina, commettendo un errore geo strategico, fondamentale perché dà alla Cina la possibilità di sostituire le importazioni, quindi aumenta la sua potenza. Ma ho una certezza: la Cina è sull’orlo di una crisi verticale, accentuata anche dal neo maoismo di Xi Jinping, perché il maoismo ha sempre portato male alla Cina, comportando fame e carestie.

Perché Scholz ha scelto di non allargare il viaggio anche al presidente Emmanuel Macron e alla presidente della Commissione europea Ursula von der Layen?

Perché non vede i margini di convivenza tra i due capitalismi con la scelta sciagurata della transizione energetica. Lo dimostra la decisione di diminuire dai 400mila a 500mila posti di lavoro indotti dalla motorizzazione a scoppio: il pericolo in Europa con la transizione ecologica è che si instauri tra Francia e Germania un gioco a somma zero. Abbiamo creato il concetto di equilibrio europeo. Ma quello che la gente non capisce è che queste transizioni dall’alto stanno distruggendo l’equilibrio europeo perché il tasso di profitto delle imprese scende, i margini scendono e quindi non c’è più possibilità di avere giochi a somma positiva per entrambi i contendenti. I giochi sono a somma zero perché c’è una caduta tendenziale del saggio di profitto, quindi si va in Cina o si va in Russia.

Questa nuova fase problematica delle relazioni franco-tedesche, condite dall’opa cinese sul porto di Amburgo, da tutte le situazioni legate alla via della Seta e quindi anche al riequilibrio alla voce gas e gasdotti, pone l’Italia nella condizione di rafforzare il legame con la Francia? E soprattutto in che termini, visto che per esempio in Africa e in Libia siamo concorrenti?

La Francia non riesce a seguire il prolungamento militare che l’Inghilterra riesce a fare fino nell’Indo-Pacifico, pur avendo delle basi, perché è in una crisi profondissima. Quello che succede nella Repubblica Centrafricana è la sostituzione dei russi con Wagner. I francesi non riescono a controllare neppure il Burkina Faso e si stanno ritirando dall’Africa. Se un avversario è una potenza così debole, è difficile che sia un tuo alleato. Ti farà a pezzi. Ma non è tutto.

Ovvero?

L’Italia è quattro anni che non ha un ambasciatore americano, c’è un incaricato d’affari. Ciò ci indebolisce verso la Francia e verso la Germania. Perché? Perché ci sono ancora le tracce del memorandum fatto dal Vaticano e dai Cinque Stelle con la Cina, frutto del trattato segreto portato avanti da anni per far nominare i vescovi. Noi siamo indeboliti, anche perché nelle relazioni internazionali tutto si tiene. È un gioco di specchi e se si muove una torre si deve muovere anche il cavallo. Il presidente del Consiglio Giorgia Meloni dovrebbe dire a Biden di nominare un ambasciatore. Se c’è in Burkina Faso perché non può esserci qui?

@FDepalo

La Cina è sull'orlo di una crisi verticale. La versione di Sapelli

“Il neo maoismo di Xi deleterio. I francesi? Non riescono a controllare neppure il Burkina Faso e si stanno ritirando dall’Africa. Se un avversario è una potenza così debole, è difficile che sia un tuo alleato”. Le riflessioni dell’economista e professore ordinario di Storia economica

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